Un giorno, ventidue ragazzi calcarono il campo di Tangarà, preassentamento Sem Terra. Ventuno brasiliani e io, italiano. Uno straniero ingaggiato in quello stesso pomeriggio, nella terra che aveva generato la miseria e la gloria della “Perla nera”. Ci arruolammo così, di tenda in tenda, di baracca in baracca. Escludendo il mio curriculum – apprendista viaggiatore – il resto della truppa vantava studi in scuole secondarie e lontane del povero e profondo nord brasiliano, la favela paulista, l’anonimato carnevalesco, la saudade carioca e la rivoluzione. Ben poca cosa per fondare una società calcistica, oltre a poter contare su un solo pallone in tutto l’insediamento. Pallone unico e prezioso, come la religione.
Disputammo una partita su un terreno di gioco circondato dal Cerrado e dalle vacche, spettatrici d’eccezione in mezzo alla campagna mineira.
In quei giorni Tangarà celebrava la ricorrenza della conquista dell’insediamento, e festeggiava d’esser stato il primo fondato nello Stato del Minas Gerais, durante i lunghi anni di lotta per la Riforma Agraria. I Senza terra di Tangarà avevano conquistato uno spazio di terra, come gli uomini che devono dire due volte di essere uomini per ottenerne il diritto e il riconoscimento.
Ricordo le porte del campo senza reti. Nelle porte, quasi sempre prive della rete, dei campi di calcio della periferia povera ho sempre visto il significato poetico del gol, della palla che quando entra continua la sua corsa verso l’infinito, senza che una barriera alcuna ne trattenga la forza e limiti il suo destino. E quel pomeriggio il pallone fu più volte recuperato dai cespugli secchi del cerrado mineiro, che per miglia e miglia riempiva l’entroterra brasiliano. L’insediamento preparava la festa per la sera, i discorsi politici, i nuovi piani di contestazione al governo e tutto il necessaire per continuare la “luta”, come la chiamavano i contadini brasiliani. I Sem terra prepararono la festa e la lotta, e noi, tra le bandiere del tramonto, esordimmo con ventidue maglie diverse, quelle di Tangarà do Brasil, la prima società di calcio nata per durare il tempo di una partita.
Comprendo bene che la cronaca appassisce se non la racconti presto, e che i fatti devono sortire a stretto giro per rispettare la regola dello scoop. Dunque mi perdoni il Lettore se non riporto risultato, marcatori, e numero di vacche spettatrici, perchè in fondo, a ripensarci, quella partita non è ancora finita, si gioca ancora oggi, e con altri calciatori.
Perché? Ecco l’aneddoto clou di quella finale senza vinti né vincitori.Calcio di rigore all’ultimo minuto a favore della mia squadra. Tutti si guardarono in faccia, consegnando a un’improvvisa cautela tutta la spavalderia della prima gioventù. Chi avrebbe dovuto calciarlo? Poi un ragazzino prese la palla e in segno di ospitalità me la porse dicendomi “va e tiralo tu.”. Io, nell’imbarazzo del penalty decisivo, cercai col sorriso e la smorfia del rispetto il consenso di tutti, pure degli avversari. Soltanto uno di quei ragazzi, mio compagno di squadra, che aveva genitori e fratelli impegnati nella “luta”, si avvicinò, sudato e con gli occhi accesi dal garbo e da una vita di dispute irrisolte, agitando la mano in segno di richiesta e allungando il braccio teso proprio sotto il mio naso di maldestro calciatore. Guardandomi prima dritto negli occhi e poi voltandosi verso gli altri, strinse il pallone sotto l’altro braccio, sussurrandomi “fischiamo la fine e non calciamolo più. Questo è il rigore della rivoluzione.”
sebastiano di paolo, alias elio goka
Articolo modificato 24 Mag 2011 - 20:24