Nel calcio della crisi, degli sceicchi e dell’egoismo c’è ancora spazio per quelle storie dal profondo livello umano che riconciliano con la passione e l’ammirazione per i professionisti dello sport, e permettono di ricostruire un immaginario dal romanticismo perduto. Il caso specifico da analizzare potrebbe essere definito come “la classe operaia che va in Paradiso”, ma basta e avanza usare solo l’anagrafica di un piccolo grande uomo: Gianluca Grava.
Tutto ebbe inizio sei anni fa, per la precisione nel gennaio del 2005. Il difensore casertano giocava col Catanzaro dopo aver trascorso sei stagioni tra le fila della Ternana con il suo amico fraterno Miccoli. Tirava una brutta aria, e per sua stessa ammissione c’era bisogno di un cambiamento, altrimenti il piccolo soldatino avrebbe rinfoderato le sue armi per sempre. Questo disagio giunse alle orecchie di Piepaolo Marino, e l’allora direttore generale del Napoli lo chiamò offrendogli la possibilità di trasferirsi in azzurro. Grava accettò ad occhi chiusi senza discutere sull’ingaggio e sugli eventuali premi promozione. Per lui la parola Napoli era più che sufficiente.
Dal fallimento in poi Grava c’è sempre stato, ed è passato dall’esordio contro il Lanciano in Serie C alle marcature asfissianti su gente del calibro di Ronaldinho, Mutu, Totti, Vucinic e Eto’o. Duttile, energico, mai polemico e sempre disponibile. Un idolo della tifoseria e un modello di serietà che dovrebbe essere preso in considerazione dalle generazioni future. Mazzarri ha voluto confermarlo a tutti i costi anche per quest’anno, e stasera, anche se non partirà titolare, il soldatino vedrà il più bel cielo stellato d’Europa dopo aver lottato per anni nel fango e nella polvere.
Giorgio Longobardi
RIPRODUZIONE RISERVATA