“Perché il vostro centravanti è lo strumento che adoperate per sentirvi dèi che gestiscono vittorie e sconfitte dalla comoda poltrona di cesari minori.” Così Manuel Vazquez Montalban, nel suo Il centravanti è stato assassinato verso sera, scrive nella lettera minatoria recapitata al glorioso club di calcio costretto a fare i conti con un misterioso cospiratore che ha nel mirino il suo nuovo centravanti. Ma qui non si parla di attaccanti fuggiti dall’area di rigore per perdersi tra tranelli e minacce di misteriosi maniaci o killer di un’avanguardia politica non ancora scoperta. Si tratta di cogliere i dettagli e far sì che almeno uno ogni tanto si renda pericoloso, come un’azione ben congeniata. Controllarne l’effetto e il rimbalzo, come quando si porta palla e la si passa al compagno meglio piazzato.
Insomma, gestire con saggezza e cautela il pallone, come un mediano metodista, e cedere la sfera al regista dai piedi sopraffini, con la serafica umiltà del gregario indispensabile. Roba da centrocampisti di fatica e facchini della rimessa. Ancora una volta, la vita. Non quella che si è stanchi oramai di cantare, ma quella vera e spicciola, furtiva e impercettibile, che scorre via per dire sono trascorsa e non te ne sei accorto a un passo dal baratro e dalla fine. L’amante di quella cosa spietata e indispensabile che si chiama tempo.
Con attenzione, se in giro ne è rimasta, e con buona grazia degli dèi, mi travesto, non senza imbarazzo, da raccattapalle che fa il suo ingresso in campo perché una delle due squadre ha un uomo in meno e troppi ruoli scoperti. Allora l’altra chiude un occhio e l’arbitro non batte ciglio. D’altronde vinceranno loro, e si sa che i risultati certi e scontati fanno l’uomo più buono e generoso. Non essendo gran che dotato tecnicamente, m’arrangio in mezzo al campo stretto stretto al regista che è tra i pochi a saper giostrare la palla. Compassionevole, mi guarda senza severità, e con tenerezza perdona i miei svarioni.
Ma andiamo al sodo, almeno per quel che mi compete, alla meno peggio, diciamo che mi compete. Sognano vittorie senza precedenti i gregari di mille battaglie, e in mezzo a loro qualcuno azzarda pure il premio come migliore in campo. Ma per soffocare il respiro a pieni polmoni della grazia che fa del grande calciatore il primo uomo sbarcato sui cuori dei tifosi, bisogna oscurare tutto, pure lo spettacolo. Ma i padroni del calcio da lassù guardano con ghigno acuto e sicuro la corsa dei campioni e la fatica dei cialtroni. Che fare? Come rimediare? Correre, affannarsi, avanti e indietro, con la picaresca movenza del servo che maldestramente porta addosso le meraviglie composte dall’artista signore. Schizzare per tutto il campo a perdifiato e mostrarsi vivi e tonici anche quando il cuore avvisa la testa che l’esplosione è vicina.
Si tormentano a lungo i figuri dediti al lavoro di squadra, per nulla invidiosi del compagno osannato dalle folle e unico meritevole di gloria quando la squadra vince. Se invece perde, allora vuol dire che i comprimari suonatori di calcioni a centrocampo non erano abbastanza in gamba. Ancora una volta ricorre, quella cosa che resta addosso a tutti e che nel calcio trova piene forma e sostanza, la vita. E quei “cesari minori” se la godono tutta, con la serafica tracotanza del padrone impunito, o impettiti come pinguini educati in collegio, oppure, perché no, rabbiosi e scomposti come ultrà improvvisati per l’occasione.
E non nasce invidia. La gelosia, almeno per una volta, non fa lo sgambetto. Non commette falli la tentazione di interrompere la gloria altrui, perpetuamente anteposta alla propria. Garbata e diligente s’allea con la grinta e il senso del dovere. Anche quella è la classe del gregario. Per farla breve, il calcio e le sue infinite realizzazioni passano per fasi cruciali non bene argomentate quando si tratta di riconoscere meriti ed errori. E il sovrano silenzioso, da lassù, da un buco centrale di una tribuna, anch’essa quasi sempre centrale, osserva, e chissà se si accorge di come funzionino le dinamiche delle quinte agonistiche. E così, su un campo di gioco grandissimo, corre un numero elevato di gregari stanchi, ma ancora entusiasti, che reggono il buon nome del futbol arrangiato ovunque per essere più bello. Dimenticati dagli imperatori e dai mecenati, mille e mille calciatori s’aggirano, pure di notte, con una fioca lanterna, alla ricerca del calciatore ideale.
Accantoniamo per un momento l’ingombrante statura delle avventure patetiche, e guardiamolo alla rovescia questo campo di calcio dove accade di tutto, luogo escogitato affinché vi avvenisse ogni cosa e con buona pace dei codici penali e internazionali. Annullare le morali e l’etica convenzionale tra le prodezze è stata la ragione salvifica di una disciplina. E quanto sa di dinamica meccanica il filo invisibile che lega gli aristocratici signori seduti lassù e i manovalanti in divisa che faticano per la gloria e le imprese.
Lo diceva pure Bill Shankly, allenatore britannico, “Il calcio è come un pianoforte. Otto persone lo trasportano e altri tre sanno suonare quel dannato strumento.” Almeno cercare di vederlo anche così, maldestramente raccontandolo. Se non si comprende il calcio e non lo si ama, o almeno non si usa la cortesia di osservarlo senza pregiudizi, non è colpa del calcio. Il calcio guarda tutti allo stesso modo.
sebastiano di paolo, alias elio goka