Ventuno. Il numero che abbiamo sentito più spesso in questi giorni è stato sicuramente il ventuno. Lo scrivono i giornali, lo dicono in tv, lo ripetono i tifosi, anche quelli che ventuno anni fa non erano ancora nati. Ventuno anni. Ventuno primavere. Ventuno estati. Ventuno campionati assegnati. Ventuno calcio-mercati tra quelli falliti e quelli andati bene. Ventuno coppe vinte da qualcun altro. Ventuno gironi europei giocati in altri stadi. Ventuno. Quasi un quarto di secolo.
In ventuno anni un bimbo impara a camminare, a parlare, impara a stare con gli altri, impara a stare con i “grandi”, studia per realizzare i propri sogni. In ventuno anni un ragazzino impara a costruire le proprie ambizioni, a riconoscere i propri difetti, ma anche a valorizzare i propri pregi.
In ventuno anni si cresce.
Tutto questo l’ha fatto il nostro Napoli. Ha imparato a camminare con le proprie gambe, a cadere e rialzarsi. Ha imparato a far sentire la propria voce e stare con le “grandi”. Ha studiato per realizzare dei sogni e ha costruito le proprie ambizioni, ha riconosciuto i propri difetti e i pregi.
Ma soprattutto il nostro Napoli è cresciuto.
Andiamo presto allo stadio. Molto presto. O, meglio, così avremmo voluto. Ore 17 arrivo al solito appuntamento a metà strada. Ci siamo. Abbiamo anche il tempo di un caffè. Perfetto. Panini nello zaino. Gomme antistress, una per il primo e una per il secondo tempo, ce le ho. Chicchirichì…lasciamo stare! Ancora si fanno attendere, questi disgraziati! La mattina sono stata costretta a fare il giro di tutte le salumerie della Pignasecca, ma niente da fare. I chicchirichì non ci sono ancora. Documento ok. Biglietti…biglietti…dunque, biglietti…cazzo!I biglietti! Il mio pre-partita e quello di chi era con me è cominciato così. Ore 17 torno in auto a casa per recuperare il tagliando magico che stavo custodendo da circa due settimane in gran segreto, chiuso in un cassetto, con zelo e felicità. Era al sicuro. Troppo al sicuro. Tanto al sicuro da non averlo visto quando sono scesa di casa, un po’ rimbambita per la fretta e la mezza giornata di lavoro pensando al Napoli.
Non è stato facile perdonare a me stessa un gesto del genere.
C’è un po’ di traffico, ma i nostri amici chiamano che hanno già preso una ventina di posti. Questa volta non vogliamo correre rischi e dobbiamo stare tutti vicini. Parcheggiamo ai campetti, arrivando con l’ansia di non trovare posto, e voliamo in curva. Passiamo i tornelli indenni e tranquilli e varchiamo la soglia che porta sugli spalti. Ed ecco che appare davanti a noi il San Paolo con il vestitino nuovo, quello della Champion’s. Tutt’intorno c’è lo striscione, le panchine sono rivestite con le stelline europee, l’arco sotto il quale passeranno i giocatori è già davanti all’ingresso spogliatoi. Pensiamo che Domizzi non ci sarebbe passato e che l’arbitro dovrà abbassare la testa a prescindere.
Sugli spalti siamo tesi. Siamo nervosi. Ma siamo sorridenti. Sembra che lo zero a zero di due giorni fa non ci abbia scalfito per nulla. O siamo dei maledetti schizofrenici. In tutti i casi, siamo belli. I nostri amici sono già lì, ci chiamano e salutano da lontano, giornali su due/tre file. Appena arrivata, mi dicono che il posto mio è su, ma devo restare giù a mantenere altri posti. Stavolta siamo agguerritissimi. La disposizione con la Fiorentina non ci è piaciuta e non vogliamo ripetere la triste esperienza degli occhi dolci da lontano. Se dovesse scapparci un goal, vogliamo abbracciarci e baciarci senza se e senza ma.
C’è chi non riesce a stare fermo a va avanti e indietro lungo la fila, chi va spesso in bagno affrontando uno slalom improbabile degno del miglior Tomba, c’è chi si rilassa con un bicchierone di coca. Whiskey e coca. Quando me lo passano non ci credo. Non voglio sapere come sia finito sugli spalti il whiskey che ha corretto la coca, ma chi c’è riuscito è stato un genio. E lo apprezziamo facendo un sorso. C’è chi, infine, resta immobile, impassibile, si guarda intorno e si gode l’atmosfera. Ma il biancore del viso tradisce un movimento delle viscere, un brutto tiro dell’emozione.
C’è tutto questo sugli spalti prima di una serata pazzesca. C’è chi fa foto a un sediolino vuoto e poi invia la foto all’amico che è fuori per lavoro e scrive “T’amm’astipat’o post’!”. C’è chi non aspetta altro che ascoltare la musichetta. C’è chi l’ha già ascoltata a Manchester, ma in cuor suo sa che in casa sarà tutt’altra roba. E il cuore poche volte sbaglia.
Ore 20: entrano le squadre per il riscaldamento. Li acclamiamo come sempre, cantiamo “Devi vincere” e non è un incoraggiamento, ma un obbligo. L’ingresso degli azzurri è un momento importante perché è il momento in cui la nostra bella famiglia si stringe per il rito scaramantico. Anche questa volta siamo orfani dei chicchirichì, ma la voglia di fare la nostra parte ci fa quasi dimenticare l’assenza. Siamo ancora tesi. Siamo ancora nervosi. E siamo ancora sorridenti.
Ore 20:45, le squadre sono pronte. Entrano in campo, passano sotto “l’arco di Trionfo”, l’arbitro abbassa la testa. E poi il nulla. Per cinque minuti non vediamo più nulla. Fumogeni colorati coprono interamente la curva, sciarpe a coprire naso e bocca, bestemmie tenute dentro perché urlare avrebbe significato mangiare fumo, orecchio teso per sentire musichetta ed eventuale fischio d’inizio. Per fortuna, il fumo si dirada appena prima di cantare tutti insieme e in un boato sorprendente “The CHAMPIOOOON”. Brividi e occhi lucidi. E questa volta non per i fumogeni.
Questo è il pre-partita di una serata pazzesca. Di una serata storica. Di una serata che ci ha regalato due goal a inizio partita, un Gargano insuperabile, un Aronica a cui chiedo pubblicamente scusa per i miei dubbi sulle sue prestazioni europee, un Lavezzi “malmenatomasempreinpiedi”, un Campagnaro roccioso e caparbio, un Dossena esaltato che finisce con l’abbracciare De Sanctis ad ogni parata, un Cavani sicuro e pronto, ma alla fine zoppicante e preoccupante. Un Inler immenso e un Hamsik sempre più grintoso. Un capitano degno della fascia. Che sarà pure la quarta fascia, ma intanto è lì al secondo posto nel girone che doveva essere infernale.
Il pensiero è andato anche a tutti quelli che, sicuramente delusi dalle proprie squadre e costretti a guardare altro in tv, avevano predetto zero punti per noi a fine girone. Tra il primo e il secondo tempo la domanda di rito è stata : “Ma la Juve che sta facendo?” e la risposta altrettanto di rito: “Noi col Villarreal e loro in VillaComunal”. Battuta riciclata dall’anno scorso, ma sempre efficace.
Insomma, una serata pazzesca. Una serata in cui siamo stati sempre tesi. Sempre nervosi. E sempre sorridenti. Perfino all’ennesimo fuorigioco chiamato da un guardalinee che probabilmente si allenava per entrare a far parte degli sbandieratori di Cava. Perennemente in aria la bandiera tanto da spingere due piccole lord a consigliargli un posto migliore e più, diciamo, intimo per tenere la bandiera.
Alla fine rischiamo un po’, ma va bene così e al triplice fischio ci abbracciamo, ci baciamo e cantiamo “Oi Vita mia” come nelle migliori tradizioni. Vediamo il Pocho e Zuniga andare via insieme, ridendo e scherzando. E capiamo che questi ragazzi si divertono davvero e che la loro forza è un gruppo meraviglioso. Siamo ancora più soddisfatti di chi ci rappresenta sul campo.
E’ stata una serata pazzesca. Una serata storica. Una serata in cui la tensione, il nervosismo e soprattutto i sorrisi ci hanno fatt
o capire che dopo ventuno anni è arrivato il momento di diventare grandi.