Edito da Limina
C’era una volta un poeta. Di rado le favole iniziano così. Forse perché sono i poeti a scriverle, e il poeta, si sa, ha il cuore colmo di vanità e imbarazzo, e allora si nasconde, senza scriversi mai. Esistono casi, anche illustri, di poeti che fanno da mittenti e destinatari nella stessa persona, riunendosi da soli e lasciando fuori il mondo che si è già dissolto dai loro spazi solitari. Oppure, questa categoria perduta e sfacciata, si adopera, con sguardo rapido e furtivo, di scovare angoli bui dove nascondersi nella speranza che qualcuno se ne accorga. Insomma, perde poesia dalle tasche, e ogni tanto butta l’occhio per controllare se quel qualcuno si abbassi per raccoglierla. E immaginatelo così, Alfonso Gatto, che se ne sta zitto zitto a ripensare alle domeniche del pallone e ai lunedì dei post partita, quieto e sereno in un angolo del reticolato intorno a un campo di calcio, sotto sotto alla bandierina, sperando di vederlo calciare presto un altro calcio d’angolo, senza che il colpo al pallone non alzi troppa polvere, e non smuova l’erba più dello sbuffo del ciuffetto che manda per aria i suoi fili staccati dalla terra.
Alfonso Gatto se ne sta così, appoggiato alla rete metallica a scribacchiare sul suo taccuino. Se ne sta fermo, dicevo, a scrivere gli appunti per raccontarci il suo calcio, la sua sfida ai poemi del rettangolo, tra le somme e irriverenti azioni di Gianni Rivera e la smaliziata guasconeria della domenica.
Immaginatevelo così, mentre lo stadio si riempie e lui non batte ciglio, così preso e concentrato nella sua veste di poeta cronista. Scrive, osserva e ascolta, verbalizza e, quasi senza volerlo, a sua insaputa, nasce un libro, cresciuto come l’erba superflua intorno al terreno di gioco. Un libro venuto su dal nulla, come i calciatori destinati ai fischi e alla gloria. Un improvviso letterario che un giorno suo nipote raccoglierà per leggerlo alla vita come la vita legge a proprio modo le sue pagine già assegnate. Tra le voci delle radioline, l’attesa della folla prima della partita, il sole, la pioggia e la domenica pomeriggio, si compone in forma di bandiera La palla al balzo – Un poeta allo stadio, di Alfonso Gatto, introdotto da una prefazione di Gianni Mura e curato da quel nipote coraggioso, che di nome fa Filippo Trotta, e che chissà quante volte avrà immaginato, pure lui, di starsene col muso nel reticolato.
La palla al balzo nasce da una collaborazione con Indro Montanelli, dal 1974 al 1976, in seguito a una serie di prose pubblicate su Il Giornale, dopo che lo stesso Montanelli aveva già apprezzato la penna di Gatto leggendo le sue pubblicazioni su L’Unità. Una lunga serie di estratti e di scritti giornalistici compongono una raccolta che mostra agli appassionati, sia di sport che di letteratura, l’inedita e meno conosciuta facoltà analitica di costume sul mondo del calcio italiano da parte del poeta salernitano. Come evidenziato dall’estratto citato da Gianni Mura nella sua prefazione, Alfonso Gatto una volta ha scritto che “Il campionato è un grande romanzo popolare a puntate.” Per questo credo sia appropriato partire dalla cifra universale che Gatto cuce sulla casacca della disputa calcistica. La palla al balzo è la memoria di un inviato, il reportage intimo e collettivo di un poeta che scopre di sentirsi cronista delle sue idee su un mondo che di idee ne vanta parecchie, confuse quanto meravigliose. Con una vena che si posa tra il linguaggio postbellico del passo di montagna (Alfonso Gatto è stato anche cronista del ciclismo) e la burbera e calorosa dialettica degli operai alla domenica, lo scrittore campano compie un viaggio involontario tra le strette spigolose del calcio di periferia e le maglie dorate dei campioni degli anni ‘Settanta, rilevando, con sottile ironia, le manie e le ambiguità più impercettibili del soccer, che sfuggono all’occhio del tifoso e finiscono nel dolce catturando di quello del poeta. Nelle prose di Gatto soffia una scrittura che ha il sapore, ormai quasi perduto, delle scale invernali di Mario Rigoni Stern e del fogliame autunnale reduce dagli alberi eterni presso i quali sosta l’umana viandanza delle narrazioni di Beppe Fenoglio. È evidente che la misura dei suddetti paralleli si smarrisce nelle assai diverse argomentazioni, ma il recupero di una prosa e di una poesia antiche, ma di linguaggio moderno, è nelle manovre dell’autore, che si dirigono tutte verso quelle rientranze che sono il porto sicuro di una letteratura essenziale e sospesa tra i sapienti timori dell’opinionista raffinato e le pulsioni emotive dell’appassionato punto e basta. La palla al balzo sarebbe cronaca in senso improprio, non è narrativa e nemmeno romanzo. È una prosa ibrida, un verbale antologico ancora vivissimo, e per nulla archiviabile tra fatti osservati e difficilmente riproponibili.
Alfonso Gatto, col suo velato stile ermetico, tipico di una prosa e di un’ironia bene accodate a quelle del suo amico Eugenio Montale, trova il coraggio di raffinare una critica garbata alle incongruenze del calcio dei ricchi e di riscoprire una dignità antica per quello dei campi ricoperti dalla polvere estiva e dalla fanghiglia invernale, appurando, durante la sua esperienza giornalistica, tutte le comunanze tra l’animo del calciatore e quello del poeta, riscontrando però un’immatura e genuina inconsapevolezza nel primo, e una dimessa e rassegnata conoscenza delle emozioni nel secondo. Un’anima rivolta all’ammirazione della prodezza che si rivela tutta nella lettera aperta a Gianni Rivera, in cui lo scrittore sembra richiamare la grazia fanciullesca del campione a una maggiore coscienza esistenziale di sé e di quello che rappresenta. Un omaggio del poeta alla sua simpatia sportiva? Può essere, ma nella sincera e acuta determinazione dello spirito creativo in tutte le sue manifestazioni, atletiche e intellettuali, tecniche e artistiche.
I commenti alle partite e le previsioni a quelle successive, le tenere debolezze dei calciatori, le subdole dinamiche del mondo arbitrale, la violenza, il valore civile e politico del calcio: tutto è rievocato dall’empirica esperienza del poeta, attraverso il richiamo a un football che non è celebrato, ma presentato come celebrazione sportiva – e non soltanto sportiva – delle speranze e delle delusioni umane. Il poeta si perde in un mondo più grande di lui, ma che, in fondo, egli riesce a rinchiudere in una tasca affezionata dopo essersi orientato proprio attraverso l’umano smarrimento.
Adesso, torniamo a dove l’avevamo lasciato, il nostro poeta. Immaginiamolo pronto a prendere i suoi appunti durante la partita che sta per iniziare, con la folla in delirio alle sue spalle e una piccola radiolina in tasca. Il frastuono e il silenzio lo accompagneranno in egual misura. Ed ecco che, come in una solitudine festante, campeggia uno striscione immaginario con alcuni dei suoi versi. “Tutto si calma di memoria e resta il confine più dolce della terra, una lontana cupola di festa.”
sebastiano di paolo, alias elio goka
Articolo modificato 30 Nov 2011 - 16:24