Era la fine degli anni ‘Ottanta e io ero poco più che un bambino. Era estate, una calda e afosa estate in una piccola cittadina della Calabria. Un pomeriggio anonimo in mezzo a un piccolo giardino, in un posto piccolo dove tutto sembrava piccolo, ma, da quelle parti, la Storia aveva sempre preso grandi contatti. Locri, nell’assolato e profondo sud calabrese, in una stagione calabrese, ascoltai a una conversazione sul calcio che mi direzionò verso un nuovo modo di osservare quel gioco tragico e contraddittorio. Il mondiale in Italia era alle porte e io non perdevo occasione di rubare occhiate e dichiarazioni sull’imminente evento che avrebbe messo il mio paese al centro del mondo.
Ero piccolo più di Locri, più del giardino e più dei posti che già da qualche anno mi ospitavano perché lì, insieme alla mia famiglia, trascorrevo estati intere per dimenticare i miei inverni scolastici, appresso al lavoro di mio padre che da quelle parti s’era dovuto insediare per qualche anno. Per non tirarla troppo per le lunghe, ricordo che, oltre ai discorsi sulla criminalità e il destino del sud, imparai pure l’extraterritorialità del calcio e di come mi sembrasse anomalo che le facce scure e spigolose del profondo calabrese potessero sostenere rappresentative del nord, in un’idea tutta mia, sia ben chiaro, sulle compatibilità culturali che non riuscivo a spiegarmi, ma che mi tenevo stretta nel silenzio dello spirito di osservazione di un bambino. E mi ricordo in quel giardino dove spesso sostavo dopo lunghi pomeriggi tra il mare e la spoglia campagna calabrese. In quel giardino, in mezzo a tante piccole piante ben curate, che macchiavano di dignitosa e singolare distinzione il giallo impazzito della Locride stopposa, il padrone di casa, a un certo punnto, esordì confessando le sue passioni e le sue ammirazioni calcistiche. “Io sono per il bel gioco. Non tengo per nessuno. Mi piace guardare le partite con occhio imparziale, ma se devo dire chi apprezzo di più, allora dico Socrates.”
Era la prima volta che sentivo nominare un calciatore che portava un nome più simile a uno scritto su una targa sotto un monumento, oppure di un eroe dei film sulla mitologia. Erano gli anni di Maradona e della sua incoronazione a re del calcio, e quel nome, Socrates, secco e improvviso, che solo un calabrese avrebbe potuto tirare fuori, col suo spirito laconico ed essenziale, mi si stampò in testa come una fotografia. Ecco che una semplice citazione fu utile a dirmi che il calcio non era uno sparuto numero di stelle, ma un’estensione sconfinata di chissà quante costellazioni. Da quel giorno iniziai a cercare nomi nuovi sul calcio, fidandomi dei racconti dei vecchi appassionati, e scegliendo da solo quali fossero le curiosità meritevoli di essere ricordate a lungo. E divenni anch’io uno dei tanti reporter giornalisti allenatori dell’Italia calcistica. Socrates, che mai avevo visto giocare, senza volerlo era stato il pioniere di una maniera più ampia, per me, di amare il calcio.
Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira, un nome lungo lungo, come lo portano tanti brasiliani. Un uomo calciatore che si distinse sempre per essere prima un uomo col suo pensiero personale e poi un grande calciatore. Medico, barba incolta e faccia da rivoluzionario sudamericano, ribelle e contestatore, solitario e gentile. Un Che Guevara dei campi di calcio. Non amava i ritiri, mal sopportava gli autoritarismi degli allenatori e le formule ottuse del calcio italiano, detestava le imposizioni delle società e per questo mai gli riuscì di ambientarsi nella Fiorentina, durante la sua esperienza nel campionato italiano. Zoff ricorda ancora il gol impossibile che Socrates gli fece durante la storica partita Italia – Brasile, svoltasi durante il Mondiale spagnolo, nel 1982. Il pallone, infilatosi tra palo e portiere, fu il latino sberleffo alla sacralità di un incontro che valse la gloria. E Socrates giocava così, senza troppi sorrisi di circostanze e con la fierezza dell’eleganza che con poche mosse si realizza.
Una volta gli riuscì pure di convincere i giocatori del Corinthians, la sua squadra storica, ad autogestirsi senza allenatore (fu chiamato il caso della “democrazia corinthiana”), riuscendo anche a raggiungere lodevoli risultati. Tutto il Brasile lo ricorda, quel calciatore col nome da filosofo, e me lo ricordo pure io, quando in Brasile chiedendo di lui mi fu risposto senza esitazioni: “Socrates? O doutor!”, “Socrates? Il dottore!”, perché così era soprannominato, il medico vestito da calciatore, che una volta a una domanda del suo allenatore italiano, Picchio De Sisti: “Ti sei accorto che in Italia i giornalisti sportivi stanno criticando le tue prestazioni?”, lui rispose: “Mister, io sui giornali leggo solo la politica. Il calcio non m’interessa.” Chi l’ha conosciuto potrebbe soccorrermi, confermandomi che era uno dalla prodezza naturale e disinvolta. Uno che faceva una cosa bella e non se rendeva nemmeno conto. Forse gli bastava il suo libero pensiero e la sua spocchia anarchica. E forse, sarà bastato pure a me per averne sentito sempre parlare e per non averlo potuto ammirare dal vivo. E la prima volta che ascoltai il suo nome fu proprio per caso, senza sforzi e senza forzature. Così, quasi come un dribbling improvviso. Alla Socrates insomma.
Chi ha giocato al calcio sa bene che, in certi frangenti, alcune finte rarissime si realizzano anche attraverso gli istintivi e fortuiti inganni. E se vi assisti, da vittima malcapitata o da autore protagonista, è doveroso ammirarne la corsa fin quando l’occhio della memoria ti presta la sua vista lunga. È il metraggio del campo visivo del fuoriclasse, e Socrates, pare, ne avesse da vendere.
sebastiano di paolo, alias elio goka