La cantante, icona della musica pop degli anni ’80 e ’90, è stata trovata morta nella sua stanza, in un hotel di Beverly Hills.
Droga e depressione, oltre ai noti abusi di cocaina, marijuana e psicofarmaci, marchiano questa spiacevole scomparsa.
Il nome di Whitney Houston, così,si aggiunge all’elenco di tanti altri suoi celebri colleghi che l’hanno preceduta in quest’ infausta fine: Amy Winehouse, Michael Jackson , Elvis Presley, Jim Morrison, Jimi Hendrix, sono soltanto alcune delle star, icone della musica diventati ormai leggende, ad essere caduti in quel vortice di dannazione e tormento, depressione e solitudine, contornato da psicofarmaci e/o droghe, alcool e sregolatezza che, troppo spesso, sfocia in una tragica morte.
Accade nella musica, nel cinema, nello spettacolo e anche nel mondo dello sport.
E’ inevitabile che il pensiero, in queste ore, voli verso il “pirata” Marco Pantani, stimato essere tuttora uno dei massimi esponenti del ciclismo italiano dall’epoca del dopoguerra, considerando che, tra pochi giorni, il 14 febbraio, cadrà l’ottavo anniversario della sua morte. Sono già trascorsi 8 anni da quando fu trovato morto nella stanza D5 del residence “Le Rose” di Rimini. L’autopsia rivelò che la morte del ciclista era stata causata da un edema polmonare e cerebrale, conseguente a un’overdose di cocaina.
Di nomi marchiati dal “logo” della tossicodipendenza se ne riscontrano molteplici anche nel mondo del calcio.
Paul Gascoigne ne è un esempio emblematico: uno dei calciatori più talentuosi della generazione degli anni 80-90, incapace di esprimere pienamente il suo potenziale soprattutto a causa della sua vita sregolata fuori dal campo. Dopo il suo ritiro dalla carriera agonistica è stato numerose volte al centro delle cronache per i suoi problemi di alcolismo accompagnati da disturbi psichici sempre più gravi.
Il popolo partenopeo è sensibile alla suddetta problematica, perchè leggere due semplici, ma strazianti parole : “dipendenza” e “cocaina”, riporta alla mente “certi ricordi” , amari, che hanno caratterizzato la storia calcistica di questa città.
Il fardello di quella vita sregolata, se lo trascinava dietro, infatti, anche “il figlio più illustre di Partenope”, “il re di Napoli”: Diego Armando Maradona.
Il veleno che sporcò la sua favola all’ombra del Vesuvio si chiamava “cocaina”, arma letale e infima, in grado di interferire perfino con il suo genio calcistico e di comprometterne le prestazioni in campo.
Un’aritmia ventricolare, una crisi ipertensiva, l’obesità.
Questo è quanto la cocaina ha portato nella vita di Diego.
Ma, almeno, Maradona è riuscito a lottare contro le sue debolezze e a prevalere su quella dipendenza, senza perdere la vita, grazie, soprattutto all’amore delle figlie, della sua famiglia che non lo ha mai lasciato solo e mai ha permesso a quel veleno di logorare altri brandelli di vita del “Pibe de oro.”
Perchè, in tutte le storie di dipendenza da qualsivoglia sostanza, il minimo comune denominatore è, troppo spesso, la solitudine.
Nell’immaginario della gente comune, le star “hanno tutto”: soldi, successo, popolarità, visibilità, fans, vita mondana, caviale, champagne, auto importanti, abiti principeschi, ville abissali, elogio di sfarzo e lusso, che possiedono la medesima metratura dell’intero paese in cui noi, “comuni mortali, viviamo.
Loro, “le star”, appartengono a quel “mondo dorato” che sovente tendiamo a dipingere nelle nostre fantasie come “il mondo perfetto”, verso il quale ambire all’infinito, seppure consapevoli che non riusciremo mai a raggiungerlo, neanche un giorno, per un giorno solo.
Ci accontentiamo piuttosto che rappresenti quel fantasioso desiderio che accarezza e colora i nostri sogni con magiche sfumature, che sia semplicemente quel mondo che vive nella nostra testa, separato dalla realtà da una “porta segreta” che apriamo ogni qualvolta avvertiamo il bisogno di attingerne una boccata di genuina fantasia.
Troppo spesso “la vita reale da sogno” delle celebrità decreta che forse questo fantomatico mondo verso il quale tutti aneliamo non è poi così dorato e perfetto.
I vip hanno “tutto”, ma queste star, le cui vite finiscono strozzate nella solitudine di un’ anonima stanza d’albergo, delineano una realtà ben diversa.
Probabilmente quello che a loro manca, è quanto ognuno di noi possiede “gratuitamente” ed è ciò che siamo così “abituati”, ormai, ad avere e che, troppo spesso, commettiamo l’errore di “dare per scontato”.
Non è retorica, ma una triste realtà.
Il sorriso che si stampa sul volto quando ancora non si sono aperti gli occhi, dipinto dall’odore del caffé che si dirama in ogni meandro della casa.
L’atto di cortese ed inaspettata galanteria di un estraneo che ci cede il suo posto in fila allo sportello della posta.
Il calore del sole.
La sensazione di genuina libertà che si avverte mentre i piedi affondano nella sabbia.
La bellezza disarmante di un panorama mozzafiato che, seppure sia sempre lì e sia rimasto invariato negli anni, è capace puntualmente di lasciarci di stucco, come la prima volta che i nostri occhi si sono posati su di lui.
L’allegra ingenuità dei bambini, capaci di strappare un sorriso, sempre e comunque e di cambiare il volto anche alla più cupa delle giornate.
L’abbraccio sincero delle persone che amiamo.
Tornare a casa, dopo una lunga e stroncante giornata di lavoro e ritrovare forza e vigore nello scodinzolio intriso di gioia del proprio cane, nel bacio affettuoso della propria moglie.
La voglia di improvvisare passettini stupidi senza prendersi troppo sul serio, allorquando l’udito è solleticato da una melodia coinvolgente, una di quelle che non ti permette di “rimanere fermo”, come una di quelle ritmate canzoni interpretate dalla voce celestiale di Whitney.
In poche parole: l’essenza, il valore delle piccole cose che fanno grande una vita e che costituiscono il senso dell’esistenza stessa.
“I have nothing” è il titolo di una delle più celebri canzoni interpretate dalla neodefunta Whitney Houston.
Possiamo solo augurare alla regina del pop americano che, ovunque si trovi adesso, abbia trovato quanto le fosse necessario per raggiungere quella agognata serenità che tanto le è mancata nella vita terrena.
E, per quanto utopistico, si spera che la sua morte non si riveli “insensata”, ma piuttosto funga da monito per persone e personaggi, più o meno celebri, che si ostinano a cercare il loro “tutto” in qualcosa che può portare nelle loro vite solo il “niente” e che, piuttosto, si rivela capace di togliergli “tutto”, perfino il bene più prezioso: la vita.
Luciana Esposito
Articolo modificato 12 Feb 2012 - 16:59