Si porterà per tutto il resto della sua carriera il pesante fardello di essere il fratello di un Campione del Mondo e di conseguenza il continuo mettere a paragone le due carriere. Parliamo di Paolo Cannavaro, capitano di un Napoli vincente, che si è raccontato a Il Mattino parlando della sua carriera.
I paragoni con Fabio, il fratello maggiore salito sul gradino più alto del mondo alzando la Coppa nel cielo di Berlino, lo hanno tormentato. “Non sono stato trattato bene, il problema ero ’sto nome che portavo: essere il fratello di Fabio è stato un macigno che ho portato sempre addosso, quasi che la bravura di mio fratello fosse una colpa per me che venivo dopo di lui. Avevo un fratello ingombrante e come poteva non essere così. Ha vinto scudetti, il Mondiale, il Pallone d’oro… È come una cicatrice che ho dentro, sempre lì a fare paragoni e per questo sono adesso ancor più orgoglioso di essere arrivato ad essere Paolo”. È una rivelazione nell’intervista del capitano del Napoli alla rivista «Il calciatore», diffusa dall’Associazione italiana calciatori.
Gli inizi. “Io ho cominciato anche un po’ tardi con il pallone. Non è che sentissi proprio tanta passione per il calcio, mi rendo conto che adesso ne ho tanta di più di un tempo. Fare calcio è stata una buona cosa perché serviva e serve a tenerti lontano da situazioni che abbiamo in città. Lo sport ti aiuta a rispettare le regole e a stare in mezzo alla gente: voglio che i miei figli seguano questa strada non per andare in serie A ma per imparare a stare in gruppo”.
La fascia. “Ci tengo a portarla, c’è tanta gente a Napoli che si rispecchia in me: me lo dicono i tifosi. Come faccio il capitano? Silenzioso e con il sorriso sulle labbra: se salta fuori un problema non sono certo quello che attacca i compagni al muro”.
Gli arbitri. “Per come vedo io le cose meriterebbero una medaglia. Ricordo quando a Parma, ai tempi di Prandelli, arbitravo le partitine: quanto era difficile. Io non mi lamento e non protesto, cerco di aiutare gli arbitri a vedere di più”.
Le tensioni. “Nei primi anni sentivo tantissimo le partite, ma ora no, riesco a non pensarci troppo, non mi trovo a vivere tensioni particolari grazie anche ad un allenatore che sa darci sicurezza: sappiamo bene quel che dobbiamo fare sul campo”.
L’attenzione. “Mi piace il ruolo di centrale anche perché c’è la possibilità di impostare da dietro l’azione. Devo cercare di migliorare sul piano della concentrazione, lo so”.
Gli impegni. “È un problema giocare ogni tre giorni. Non fisico, ma da un punto di vista psicologico, di concentrazione”.
I viziati. “Tanti calciatori sono l’opposto rispetto a questa etichetta, però è anche vero che negli anni si sono viste cose davvero brutte e l’immagine del calcio e dei calciatori è stata danneggiata: difficile così dall’esterno vedere il contrario”.
Il lavoro. “Gli altri ti fanno sentire il calcio come un lavoro, per me è una cosa bella e io non mi lamento per gli allenamenti ed era così anche quando giocavo meno. Mi sento assolutamente un privilegiato”.
La canzone. “Non canto mai ’O surdato ’nnammurato, non mi viene. Adesso con la Champions è straordinario sentire la gente cantare quell’inno. Ricordo uno degli assistenti della partita contro il City, era sloveno ma parlava italiano: ”Siete matti voi”, così mi ha detto”.
Il razzismo. “A me dicono sempre che sono terrone, dove giochiamo spesso cantano ”noi non siamo napoletani”. È anche vero che noi siamo dappertutto come i cinesi”.
Fonte: Il Mattino