14 marzo 2012. Questa è una data che non dimenticheremo facilmente.
La notte prima dormiamo poco e male. La mattina facciamo un giro distratto per la città. C’è chi Londra la conosce bene, chi poco, chi è qui per la prima volta. Tour classico: Big Ben, tifosi napoletani, Wastminister, tifosi azzurri, Trafalgar Square, sciarpe del Napoli, Tower Bridge, ancora dialetti conosciuti che cercano di orientarsi in terra inglese. La città ci suona abbastanza familiare.
All’una si guarda già insistentemente l’orologio. Il piano d’azione è andare allo stadio verso le cinque. Prima si passa per l’hotel per abbandonare mappe e macchine fotografiche e indossare sciarpe e colori azzurri.
Da Earl’s Court, sono solo due le fermate di metro che ci separano da Fulham, dove è situato lo stadio del Chelsea. Bene. Cerchiamo informazioni prima di avviarci, sappiamo che Mazzarri è stato riabilitato. Per scaramanzia non ne siamo molto contenti. Senza di lui in panchina abbiamo sempre vinto. Almeno così ricordiamo. Ma è solo scaramanzia. E col senno di poi continueremo a professarla come fede.
Alle cinque, come previsto ci avviamo. Già all’esterno della stazione di Earl’s Court vediamo camminare tante sciarpe azzurre. I tifosi sono molti e vogliamo gustarci un pre-partita lungo. Un po’ pure per paura di avere problemi fuori lo stadio. E anche perché la stanza d’albergo comincia a starci troppo stretta. Vogliamo aria e profumo dell’erba del campo.
Arriviamo allo stadio e pensiamo di essere solo tra i tifosi azzurri. Dagli accenti ci avrei giurato. Dalle facce pure. E invece vediamo in giro tante sciarpe e maglie del Chelsea. Tutte rigorosamente nuovissime. Alcune ancora col cartellino. Chi le indossa si guarda intorno in cagnesco, controlla e parla poco. Chi ha biglietti di altri settori non vuole farsi riconoscere, vuole entrare per vedere il match più importante degli ultimi anni. E non vuole rischiare di farsi cacciare da steward enormi e senza cuore.
Passiamo prima un pre-filtraggio, mostriamo il nostro biglietto a ben tre steward, vediamo una gigantografia di Zola, ma non la fotografiamo. Con la maglia del Chelsea non si può fare. Chiediamo dove sia il settore ospiti, molto gentilmente ci spiegano che è “just the opposite side”. Completamente dall’altro lato. Passiamo davanti allo store del Chelsea. E davanti a un tipico tifoso inglese con tanto di maglia dei blues che chiede all’amico: “E aro’ sta ‘o appèrweststènd?”. No. Il 14 marzo 2012 è una data che non dimenticheremo facilmente.
Una volta arrivati al settore ospiti, troviamo una situazione tranquilla. Incontriamo due amici di curva, ci abbracciamo e ci guardiamo fiduciosi. Quando capiamo che possiamo già entrare, siamo sollevati. Mostriamo il nostro biglietto-trofeo ad occhio e croce ad un’altra decina di steward, una di loro mi controlla lo zaino, le tasche, il cappuccio, le maniche, le mutande. Non nascondo bombe e neanche coltelli e pistole. Posso entrare.
Lo Stamford è strano. Scale e cunicoli prima di sbucare praticamente in campo. Si sente veramente il profumo dell’erba da quanto siamo vicini. Immaginiamo un goal dal nostro lato. Dev’essere un’emozione unica. In effetti lo è stata. Unica. Come il nostro goal. Poi ne abbiamo visti altri due, ma quella è un’altra storia.
Cominciamo ad ambientarci nei nostri posticini, andiamo a prendere da bere, vediamo altri amici sugli spalti sopra di noi, salutiamo da lontano, cantiamo, salutiamo il Pampa Sosa che è venuto tra noi per prendersi un po’ di calore azzurro. Per lui non manca mai e ne è sempre riconoscente.
La tensione sale. Da casa arrivano messaggi sulla temperatura dello spogliatoio troppo alta per cui i nostri si sono lamentati. La domanda è : “ Vogliono lessarli?”. Col senno di poi, si è rivelata una buona pre-tattica. Qualcun altro vuole condividere con noi l’ansia, tornando prima da lavoro e cominciando a fare “riscaldamento” già due ore prima.
No. Questo 14 marzo 2012 non è una data che dimenticheremo facilmente.
Quando i nostri entrano per il riscaldamento li acclamiamo cercando di passare loro la nostra voglia di vincere e superare il turno. Probabilmente non siamo stati convincenti. Noi, però abbiamo continuato a cantare e a spingerli fino alla fine.
Insomma, ci credevamo. Inutile nasconderlo. E con un 3-1 in casa non era impossibile.
Alle 19:45 ora locale le squadre entrano in campo. La canzoncina risuona in casse che amplificano veramente. Il nostro “The Champion” finale è forte come non mai. E ne siamo soltanto 2700. Noi siamo carichi. Tesi e carichi. Siamo qui perché siamo convinti che questo 14 marzo 2012 non è una data che dimenticheremo facilmente.
L’arbitro fischia e da lì cominciano a sgretolarsi i nostri sogni.
Il Chelsea sembra di nuovo il Chelsea. La difesa del Napoli sembra di nuovo la difesa del Napoli. Col Cagliari sembrava che Campagnaro fosse già a Londra, con il Chelsea probabilmente era già pure tornato a Napoli. O, a questo punto speriamo, a Udine. E che ci resti almeno fino a domenica sera. Cavani non stoppa una palla semplice, Cech non onora il suo nome e vede fin troppo bene la traiettoria di un tiro insidioso del Pocho, in compenso noi non vediamo la porta nelle tante occasioni in contropiede. Conclusione: segnano loro. Drogba ci castiga, guarda caso, di testa. Tra lui e Larrivey non c’è praticamente nessuna differenza.
In quello spicchio di stadio abbiamo noi temuto il peggio. E il peggio è arrivato. L’intervallo ha gasato i blues e stordito gli azzurri. E’ arrivato il secondo e poi finalmente si sono svegliati.
Si. Il goal di Inler ha fatto emettere a tutti noi urla disumane e parole indicibili di soddisfazione. Nell’intervallo continuavamo a ripeterci che almeno uno saremmo riusciti a farlo. E così è stato. E la gioia provata per quel goal è qualcosa d’indescrivibile.
Signori miei. Io mi fermo qui. Tanto sapete com’è andata a finire. Io so solo che da quel sediolino da cui riuscivo a sentire il profumo dell’erba non sono riuscita a vedere perché è stato fischiato il rigore, una prospettiva da fare invidia al più accademico dei pittori; mi ricordo che un tizio temerario accanto al nostro settore ha sventolato una bandiera della Roma, provocando una reazione veramente poco composta da parte nostra. Gesto inconsulto, inspiegabile, fuori luogo che gli ha procurato un accompagnamento fuori lo stadio da parte di uno steward. Uno steward che molto gentilmente lo stava accompagnando verso di noi, poi ha capito che il giallorosso ha poco a che vedere con l’azzurro e ha cambiato direzione. Ricordo che non sono stata una corda di violino per 90 minuti, ma per 120. E ricordo quattro chewingum invece di due. Decisamente troppi per la mia mascella.
Ricordo le lacrime. I singhiozzi di un’occasione persa e l’abbraccio di un amico che cercava di consolarmi e consolare così anche se stesso.
Ricordo 2700 persone che hanno cantato per oltre due ore senza stancarsi. Ricordo che ho notato che sarebbe stato bello se i nostri azzurri a fine partita almeno ci avessero salutato e ringraziato come si deve non da centrocampo, ma da dai due metri che ci separavano dal campo.
Ricordo i messaggi di chi avremmo dovuto incontrare dopo la partita, ma che per la delusione e per un aereo all’alba del giorno dopo aveva deciso di tornarsene in albergo, cercando di addormentarsi e non avere incubi. Che uno l’avevamo appena vissuto.
Ricordo una bella delusione. Ma anche la speranza di dedicarsi agli altri traguardi più serenamente. E ricordo la bella conclusione di serata, con una birra e l’abbraccio di alcuni amici ritrovati e altri che sono andati via, ma che saranno sempre con noi.
No. Questo 14 marzo 2012 non è una data che dimenticheremo facilmente. Perché qualcuno dice che chi ama non dimentica. E noi sappiamo come amare una passione fino in fondo.
Sempre Forza Napoli.