In gabbia. Rannicchiati, senza nemmeno provare a ribellarsi. Appena qualche giorno fa eravamo qui ad esaltare il nostro plotone di fuoco. Quell’attacco del Napoli capace di punire tutte le difese affrontate finora, con un cinismo ed una puntualità a tratti stupefacenti. A Catania, in un sol colpo, il buio ha attanagliato l’intero reparto. Nessuno escluso.
Hamsik, il nostro condottiero: cercasi cavallo.
Il riesumato Pandev: zombie.
Cavani, tritolo allo stato puro: imploso.
Insigne, il bambino d’oro: “tu scendi dalle stelle”.
Turbo Vargas, ricomincio da tre: gambero.
In orbita dopo un eccezionale impatto iniziale, si sciolgono sotto i raggi di sole della bella Sicilia. Tutti insieme. In campo uno per volta come nell’incalzare di uno spettacolo pirotecnico. Uno spettacolo ambiguo, con applausi iniziali e mugugni ai tre fischi conclusivi. Un punteruolo inspiegabilmente rotondeggiante, un arcobaleno senza il suo cielo. Ma possiamo permetterci che i nostri principali diamanti organizzino una scampagnata ai piedi dell’Etna senza avvertirci? Può un gruppo non avere una guida che prenda per mano i compagni quando si smarrisce la via maestra? Assolutamente no. Non ci sono alibi. Fuorviante assistere a bocca aperta alle lodi ricamate al Catania create su misura per tamponare le doverose accuse al Napoli. Una squadra si raggomitola nella sua metà campo, con diligenza tattica e carattere da vendere, e la partita si conclude lì? Impensabile. Saremmo alla frutta.
L’essenza del calcio sta proprio nel saper sovvertire le inerzie prestabilite. Gli azzurri non l’hanno fatto. Non è mancanza di capacità, è sufficienza e passività da schiaffi. La strigliata di Mazzarri a Castevolturno, quel “vi siete montati la testa” scivolato fuori dagli spogliatoi e sbattuto sui taccuini dei giornalisti, ha avuto uno scopo ben preciso. Non siamo nessuno, se vogliamo ritagliarci il nostro spazio dobbiamo lottare con umiltà e abnegazione su ogni campo e contro qualsiasi avversario. “Forse i ragazzi hanno pensato che la gara fosse in discesa dopo l’espulsione di Alvarez“, ha bacchettato subito dopo l’incontro il tecnico toscano. Oggi ha ribadito il concetto in conferenza stampa. La presunzione di poter fare degli etnei un sol boccone è stata un folle boomerang, ad un passo dal colpirci in pieno viso se il diagonale velenoso di Gomez baciava il palo dalla parte opposta. Sono venuti meno i fraseggi, la velocità nel far girare palla, l’estro dei singoli e la necessaria lucidità. Qualcuno ha richiamato il fantasma di Lavezzi, non ricordando che anche con il Pocho “spaccadifese” certe prestazioni abuliche erano all’ordine del giorno. E’ mancata soprattutto la fame, quella che non deve mai smettere di accompagnarci. Quella che l’anno scorso, a tratti in orgogliosa solitudine, ha consentito alla Juventus di reggere il primato fino alla meta tricolore. Per fortuna non c’è un match infrasettimanale a fare da parafulmine. Tutti a rapporto, tutti giù per terra. La solita questione di mentalità, una rima non troppo riuscita con maturità. Una malattia ereditaria che ogni tanto rispunta dopo un’apparente guarigione. E sono brividi. Terapia d’urto: i sogni si cibano di briciole della realtà. Altrimenti restano malinconici vagabondi notturni.
Non si diventa mai grandi. La vetta va scalata senza abbassare lo sguardo. Tirarsi su le maniche e buttarsi alle spalle l’esperienza negativa di domenica: questo è l’imperativo. Trascinando lungo la SA-RC due sorrisi: un punto guadagnato su un terreno ostico per chiunque; la consapevolezza che, almeno per quest’anno, le metamorfosi da sindrome del Massimino si chiudono qui. C’è da pensare a domani sera, a quella Lazio che giunge al San Paolo avvelenata dall’immeritata sconfitta interna contro il Genoa. Uno scontro diretto, per lo più tra le mura amiche. Un’altra sfida dal retrogusto amaro del tabù. I biancocelesti a Fuorigrotta non sono ospite gradito: da quando il Napoli è in serie A sono usciti sconfitti solo due anni fa dopo quel 4-3 da tachicardia sfrenata. Per il resto, tra Coppa Italia e campionato, tanti bocconi amari sono stati ingoiati. Non c’è tempo da perdere, bisogna spiegare le vele e riappropriarsi del mare aperto. Non servono showman, occorre armarsi di un sano spirito di sacrificio. Il viaggio è lungo, le insidie tante. Barcollare si può. Una volta soltanto.