E’ indubbiamente appartenuto ad un calcio che non c’è più il concetto di “gruppo”, sempre più raro sui campi moderni, a causa delle società divenute aziende interessate a vendere un prodotto che è il risultato di una formula data dai propri calciatori, moltiplicata per gli sponsor, il marketing, gli incassi e le tv. Insomma, verrebbe voglia di sfidare la logica e mettersi a costruire una macchina del tempo in grado di portarci indietro per rivivere quelle emozioni. Ma non ci è concesso, perlomeno non ci è dato di sognare di epoche andate, ma è d’obbligo provare a far rivivere nelle menti preparate e aggiornate degli allenatori del nuovo millennio ciò che squadre come la Fiorentina di Antognoni, il Cagliari di Riva, il Verona di Bagnoli sono state in grado di insegnare a generazioni intere.
Ciò che le accomuna, ma non sono gli unici esempi, è sicuramente il valore che un agglomerato di giocatori messi alla rinfusa in principio è stato in grado di concretizzare, avendo man mano costruito le fondamenta di un successo, grazie soprattutto ad un’ossatura di base sempre ben definita, con uomini affidati e fiduciari di una mentalità intrinseca in ognuno, forgiata sui propri ideali a servizio della propria maglia. Questo tentativo di forgiare un gruppo di lavoro e divenuto, anni dopo, sempre più numeroso, fino a raccogliere i calciatori giusti per quadrare il cerchio e dar vita finalmente a “la squadra“, non un team qualunque.
Perché c’è differenza, ed è tutto scritto nella storia, oltre che nei palmares. Forse non è scritto che per formare un gruppo c’è bisogno di gente collaudata da un lato, desiderosa di affermarsi e dare qualche gioia alla gente che ogni domenica affolla le gradinate dello stadio in cui giocano e sostengono i colori che rappresentano la squadra della propria città, quella per cui fanno il tifo, dall’altro di nuovi innesti capaci di assorbire le stesse movenze e atteggiamenti, per diminuire sin da subito il gap che l’inesperienza può delimitare, ma anche di uno staff in grado di supportare e gestire nel migliore dei modi momenti di enfasi, di difficoltà, di vittorie esilaranti e di sconfitte cocenti, momenti in cui la sorte ti è avversa e quando la fortuna ti è amica, di una società pronta a fare un passo indietro quando si tratta di non apparire per disturbare situazioni delicate, di intervenire energicamente quando è il momento di farsi sentire, senza gravare sulla psicologia della squadra, avvolta nella bambagia e al di là di ogni contaminazione volta ad alterare stati d’animo ed equilibri fondamentali in un team con alte velleità.
Sembra il quadro perfetto per dipingere le sorti del Napoli, con Walter Mazzarri pittore di un’opera che si appresta ad essere un capolavoro, ma che, visti i tempi ancora prematuri, è soltanto uno schizzo che promette bene ma che manca ancora di colori, di nuance, di soggetti in grado di definirlo. Ma il pittore, si sa, ci ha già messo del suo, ed ha tirato fuori le prime chicche, dalla innovazione nella gestione del turn over, dal modulo cucito addosso alla squadra, in base alle proprie caratteristiche, il tentativo riuscito di trasformare giocatori non solo sotto l’aspetto intrinseco al ruolo, ma anche per ciò che riguarda l’approccio alla gara, al rapporto con i tifosi e la stampa, insomma è stato in grado di iniettare in essi la formula della mentalità vincente, il quale principio è dato dalla rivalutazione dell’autostima. Uno stratega più che un tecnico, un vero e proprio “Mentalist” che ha portato una ventata di innovazioni, modificando concetto fino a ieri immutati.
Ma la grande opera era stata già fatta sulle fondamenta di questa squadra, da cinque anni a questa parte in crescita di pari passo alla società ed alle proprie ambizioni, sempre più esigenti, sempre più votate alla posta in palio più appetitosa. Alle fondamenta ci ha pensato il buon Aurelio De Laurentiis, il quale, checchè se ne dica, è stato un uomo di equilibrio, in grado di misurare bene tempi e modi, distanze brevi e scadenze a lungo termine, scegliendo di volta in volta i condottieri che al suo fianco si sono alternati, comperando con parsimonia e con altrettanta saggezza, dimostrando a molti che l’esperienza da “titolare d’azienda” e padre padrone non ha intaccato minimamente la sua umiltà nell’affidare in mani sicure la gestione di ruoli e mansioni che non gli competano, a cui non avrebbe saputo far fronte.
Oggi il Napoli è una realtà che difficilmente si sfalderà, grazie anche a questi uomini, abili gestori di una piazza storicamente difficile, dove hanno ampiamente dimostrato di poter fare ottime cose, con l’aiuto delle proprie esperienze sul campo, delle innate capacità di leader, ognuno nel proprio ruolo, in funzione delle necessità che un ambiente così esigente ha preteso ogni giorno della loro gestione. Potremmo parlare di lezione di vita gestionale, ma suona troppo tecnico, forse più adatto per un meeting imprenditoriale, ci piace definire il tutto una splendida realtà azzurra, che, grazie alle capacità di uomini preparati e virtuosi, stiamo vivendo e vivremo ancora per molti anni, con la speranza che i frutti di questa “passione per il proprio lavoro” vengano presto raccolti. Napoli aspetta con ansia…