Il pugno chiuso, contornato da un guanto nero di cuoio, in simbolo di solidarietà. ll capo chino, offeso. Niente scarpe, ma calze corte e nere, quale incarnazione della povertà, delle radici. Una medaglia d’oro e un’ altra di bronzo, adagiate sul petto.
Il pugno destro di Smith, dritto nell’aria, rappresentava il potere nero in America, mentre il pugno sinistro di Carlos simboleggiava l’unità dell’America nera.
Un’ immagine forte, cruda, essenziale nella sua protesta, incisiva e repentina nel diffondere il messaggio di cui si fa portatrice, capace di cavalcare tante generazioni e di infliggere una sterzata importante per quanto attiene l’abbattimento di quel muro chiamato “discriminazione razziale“, contro il quale i sogni, i diritti, le vite di molti neri d’America si sono sfaldate.
Thomas “Tommie” Smith, uno dei più grandi sprinter dell’atletica leggera, soprannominato “jet“, proprio per la sua fulminea velocità, tra i più forti di sempre nei 200 metri, capace di fissare un record ed estenderlo ben oltre i confini della mera attività sportiva.
Accanto a lui, su quel podio, in quella storia che ha scritto la storia, vi era il suo collega ed amico John Carlos, medaglia di bronzo nella stessa gara.
Tommie Smith e John Carlos hanno sancito un punto di non ritorno, semplicemente utilizzando un pugno.
Non servendosene per sferzare un colpo, ma semplicemente ergendolo verso il cielo.
Un pugno silenzioso, ma dirompente nel suo fragore, innocuo, ma più devastante di una bomba, capace di scardinare gli animi e stravolgere le costipate ideologie.
Un pugno come simbolo di orgoglio, unità e diritti, nell’ ambito della cerimonia di medaglia più popolare di tutti i tempi, nonché momento fondamentale per movimento di diritti civili.
Questo è quanto accadde il 16 ottobre del 1968, appena la bandiera a stelle e strisce iniziò ad oscillare nel vento di quella calda sera a Città del Messico, destinata a rimanere indelebilmente incisa nei libri di storia così come nelle coscienze umane.
Con i loro pugni alzati, lì su quel podio olimpico, Tommie Smith e John Carlos comunicarono al mondo intero la loro solidarietà con il movimento del “black power“, che in quegli anni lottava aspramente per i diritti dei neri negli Stati Uniti.
I loro occhi rivolti verso il basso e non verso la bandiera americana, insieme al loro pugni foderati di cuoio nero, suscitarono enorme scalpore e polemiche.
In maniera non violenta i due stavano attuando quella disobbedienza civile che era stata auspicata da Martin Luther King, morto poco prima delle Olimpiadi, evento, quest’ ultimo che, unitamente alla strage di Piazza delle Tre Culture, concorse, in quel momento storico, ad imprimere nel cuore di ogni nero americano, dolore, rabbia, sconforto, desiderio di ribellione, rivalsa, riscatto.
Già, perché il cammino che portò Smith e Carlos alle grigie di partenza, fu assai travagliato e tristemente intriso di sangue e razzie.
Il movimento dei diritti civili non aveva fatto molta strada nel tentativo di eliminare le ingiustizie subite dai neri d’America, e per attirare l’attenzione pubblica sulla questione, verso la fine del 1967, alcuni atleti neri avevano dato vita all’ Olympic Project for Human Rights, OPHR, al fine di organizzare un boicottaggio alle Olimpiadi che si sarebbero tenute l’anno successivo a Città del Messico. Boicottaggio che però non ebbe esito. Il Comitato olimpico statunitense cerca di far rientrare la protesta, attraverso metodi più o meno leciti, edavvalendosi di più o meno convincenti metodi persuasivi.
I due atleti sfruttarono, quindi, il palcoscenico offerto dalla premiazione per rovinare la festa ai connazionali ed al mondo, almeno un po’.
Un temporale di oltraggi fu quello che, successivamente, li investì: per vilipendio alla bandiera furono espulsi dalla squadra nazionale e banditi dal villaggio olimpico.
Ma nel cuore e nella coscienza di Carlos e Smith non vi era posto per nessun rammarico.
Ritenevano giusto farlo e lo avevano fatto: “Non siamo cani da corsa noi neri. Alle Olimpiadi ci accarezzano, ma molti bianchi ci considerano solo animali buoni per correre: poi si torna a casa ed e’ tutto dimenticato“.
Cosi’ nessuno avrebbe mai dimenticato. E la storia, il tempo, hanno dato loro ragione.
La foto che immortala quell’ attimo è intrisa del divino dono dell’ eternità, avulsa dal tempo e dallo spazio, al di sopra degli eventi e della volontà.
Ricorda, esorta alla riflessione, lascia riecheggiare nelle coscienze il messaggio di riscatto ed orgoglio di cui si fa portatrice, scuote le anime, più o meno facinorose, più o meno sottomesse, testimoniando che per cambiare il mondo è sufficiente un piccolo gesto e che, di contro, sono i piccoli gesti che concorrono a cambiare il mondo.
Oggi, come allora, così sarà, sempre.
Luciana Esposito
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