Avete mai visto un gasometro? Dai binari che precedono la stazione di Napoli a Piazza Garibaldi, si può osservare da lontano quel grosso cilindro fatto da una specie di reticolato, che da lontano pare una giostra per adulti, col suo luogo di cerchio chiuso sotto quella enorme struttura di metallo.
Quando ne vidi uno a Roma, nei pressi di Testaccio, vicino alla zona dell’ex mattatoio, mi tornarono in mente i film di Fellini e quelli dei registi del neorealismo. Quando mi capita di rivederli, i gasometri, mi passano davanti agli occhi le scene di De Sica, Zampa e Rossellini. Da napoletano mi soffermo con intima commozione sul dialogo confidenziale tra Totò e Aldo Fabrizi nella scena finale di “Guardie e ladri”. Uno per volta, cerco di passarli tutti in rassegna, quelle vecchie pellicole in bianco e nero, che sembrano venute così, da un tempo che non ho conosciuto, apposta per accomodarsi un po’ ovunque, giocando a nascondino tra i palazzi delle periferie industriali e i vecchi quartieri. Per chi le ha sentite una volta, non è difficile sentirle ancora, quelle voci acquattate dietro gli angoli della strada, nei sottopassaggi e nelle baracche ancora in piedi.
Di questo luogo reale e immaginario, ho potuto fare esperienza interiore grazie a un poeta che col più pudico dei timori ho iniziato a sentire mio per una sola, unica e imponderabile ragione. Al di là della sua opera, al di là del suo personaggio, di lui ho amato proprio quello, l’immaginario reale, il sentimento cauto e assoluto di una voce, di occhi, di orecchie, di una pelle, che in qualche modo mi sono cresciuti dentro, e non domandatemi della creatura, perché che essa sia mostruosa o ricolma di grazia, non lo so. So soltanto che l’ho visto venir su già prima di fare esperienza di conoscenza immaginata, perché solo così posso definirla, di quel poeta che invece non ho conosciuto. E quando dentro, quella presenza primordiale muove le sue remote sollecitazioni, allora ricompaiono ferrovie e gasometri, periferie e vecchi quartieri.
Quel poeta si chiama Pier Paolo Pasolini, e semmai io fossi partito da troppo lontano per raccontarvi di qualcosa che molto ha avuto a che fare col pallone, mi giustifico assicurandovi che non avrei potuto farlo, senza l’avviso che tutto questo è per me infinitamente sentito e indispensabile. Perché? Perché è stato tra i suoi più alti insegnamenti indurmi alla narrazione sincera, schietta e irrecuperabile, accorta e netta, senza che mai nulla di artificioso giungesse a convincermi di qualcosa che non fosse quello che io volessi dire. E col calcio lui ha fatto lo stesso. Lo ha vissuto e lo ha raccontato come la cosa più vera che si potesse sperimentare. Una volta, durante un’intervista, Enzo Biagi gli ha chiesto: “Senza cinema, senza scrivere, cosa le sarebbe piaciuto diventare?”. E lui: “Un bravo calciatore. Dopo la letteratura e l’eros, per me il football è uno dei grandi piaceri”.
Pasolini giocava da ala destra. Era bravo, e non per dire. Era bravo davvero, talmente rapido che gli fu dato il soprannome di “Stukas”, un veloce aereo che i tedeschi utilizzavano durante la guerra. Quando giocava a pallone, gli piaceva farlo soprattutto in quelle piccole squadre della periferia romana, di quella borgata che era luogo poetico e di ispirazione dei suoi romanzi e dei suoi film. Daniele Serra ha raccontato di quanto Pasolini fosse così entusiasta di andare a giocare a calcio coi suoi amici Ninetto Davoli, Sergio e Franco Citti, preferendo di starsene insieme ai ragazzi dei quartieri di quella Roma lontana dai lussi e dai riflettori, nonostante il poeta già fosse uno scrittore e un regista famoso.
Ma la passione del poeta friulano per il calcio, non si limitava alla voglia di praticarlo, ma pure a quella di studiarlo e di raccontarlo. Pasolini ha definito il calcio un linguaggio, una forma di segni coi suoi codici e la sua semantica. Ha sviluppato teorie sugli schemi di gioco, traducendoli in analisi filologica, definendo il calcio europeo “calcio in prosa”, e “calcio in poesia” quello sudamericano. Ha condotto personali reportage sui campi di allenamento dei calciatori professionisti e ha scritto prose molto significative sul tema, soprattutto in chiave politica e civile, riuscendo sempre a scorgere i punti critici della parabola sublime che vuole il pallone versione agonistica e poetica dell’umanità.
Ninetto Davoli ha spesso ricordato di come fosse quasi diventata un’abitudine fermarsi a giocare ogni volta che il poeta si accorgeva di un gruppo di ragazzi intenti a correre dietro a un pallone. Alcune foto di Federico Grolla, lo ritraggono mentre gioca disinteressandosi completamente di essere vestito in giacca e cravatta, indifferente all’eventualità di sudare e di sporcarsi, felice e sereno, in quelle immagini che fermano quegli istanti di assoluta anarchia, liberi di sconfinare i limiti estetici di un’Italia troppo presa dalla sua epoca dell’edilizia isterica e sfrenata, che ha confezionato le città in nuovi luoghi della miseria, la stessa che il poeta ha sempre voluto descrivere nei suoi libri e nei suoi lavori cinematografici.
Pier Paolo Pasolini, quando giocava a pallone, lo faceva con serietà e abnegazione. Non voleva perdere. Per lui il calcio era ragione di rigore, e per questo non si sottraeva a dispute che a volte andavano anche oltre l’allegra e gioviale sopportazione. Una partita tra una rappresentativa del cast del suo ultimo film, “Salò e le centoventi giornate di Sodoma” e quella di “Novecento”, pellicola di Bernardo Bertolucci (all’inizio della sua carriera era stato aiuto regista proprio di Pasolini) è diventata una specie di leggenda metropolitana.
Era la primavera del 1975, e nei pressi di Parma venne organizzata questa curiosa partita. Qualcuno avanzò l’ipotesi che l’incontro dovesse servire a riappacificare Pasolini e Bertolucci, a causa di un vecchio litigio successivo a una critica feroce che Pasolini aveva mosso a un film di Bertolucci. La partita si giocò in un campo nei pressi dello stadio Tardini. Bertolucci non giocò, limitandosi a tifare per la sua squadra dalla tribuna. Pasolini, invece, volle essere in campo a tutti i costi. La partita fu vinta nettamente dalla rappresentativa di “Novecento”, facendo arrabbiare non poco il regista friulano, che abbandonò il campo prima della fine dell’incontro. Pare che Pasolini tenesse talmente tanto a giocare bene e a vincere, che quando non ci riusciva era capace persino di litigare a causa della delusione.
Sono tanti gli aneddoti simili che accompagnano la biografia di Pier Paolo Pasolini, e tanti furono i messaggi che il poeta mandava ai suoi amici scrittori in occasione delle partite di campionato, specie quando giocava il Bologna, la squadra alla quale lo scrittore teneva come poche cose al mondo. Anche da tifoso non si risparmiava, al punto dal non riuscire a evitare che il suo umore fosse condizionato dai risultati dei suoi rossoblu. Il 2 novembre 1975 è la data della notte all’idroscalo di Ostia, quando Pasolini conobbe la sua fine brutale e misteriosa. Ma, su questo, in assenza del poeta, poco di intelligente si potrebbe sollevare.
Una celebre fotografia, ritrae Pasolini seduto di fronte a una veduta di Roma, mentre gli fa da sfondo una parte della periferia capitolina. Quasi al centro della foto, un vecchio gasometro divide il poeta da un’altra figura più giovane. E “Pà” lo guarda, affrettarsi a uscire dalla foto, in un momento che pare una fuga da quell’immagine che quei due figuri sembra esserseli presi quasi per errore. Un affresco provvisorio di un paesaggio industriale, precario, mortale, come la reggia di un impero decadente. E poco importa chi o cosa lo abiterà nel futuro. Quello che importa, se importa, è che vi passi ancora qualcuno che vi lasci traccia di sentimento. E i calci al pallone di Pier Paolo Pasolini, suonano ancora una musica che si divide tra la voce delle cose e il loro silenzio.
Sebastiano Di Paolo, alias Elio Goka