E’ la festa dei bambini, di tutti i bambini: quelli palestinesi, israeliani, libanesi, sudanesi ai quali la storia moderna ha strappato via la spensieratezza e il gaudio dei ludi, imponendogli di crescere repentinamente, sostituendo una pistola giocattolo con un cruento fucile.
Quelli del Qatar, di Singapore, del Bruney, figli del progresso e della tecnologia che si dividono tra merendine ipercaloriche e play station, cullati nello sfarzoso agio del benessere.
Quelli del Burundi, dell’Eritrea, del Madagascar, del Congo, dello Zimbawe, di Haiti, delle favelas argentine e brasiliane che lottano contro la fame, la miseria, la povertà per opporsi a quel tragico e crudele destino che, nella maggior parte dei casi, li condanna a rimanere bambini in eterno.
Tra i bambini del “Sud del mondo” ci annoverano anche quelli di casa nostra, i più piccoli e vivaci abitanti di questa terra, i bambini dei quartieri e delle periferie: Scampia, Secondigliano, San Giovanni, Barra, passando per il Pallonetto di Santa Lucia e i Quartieri Spagnoli, la nostra Napoli è intrisa di acerbi germogli pronti a maturare.
Difficile carpire dai loro sguardi e dai loro sorrisi se diventeranno fiori o erba cattiva.
Perché i bambini, tutti i bambini, non sono mai cattivi.
Dentro di loro covano sogni, contornati da purezza e fantasia.
I bambini imparano ciò che vivono.
Se un bambino vive nella critica impara a condannare.
Se un bambino vive nell’ostilità impara ad aggredire.
Se un bambino vive nell’ironia impara ad essere timido.
Se un bambino vive nella vergogna impara a sentirsi colpevole.
Se un bambino vive nella tolleranza impara ad essere paziente.
Se un bambino vive nell’incoraggiamento impara ad avere fiducia.
Se un bambino vive nella lealtà impara la giustizia.
Se un bambino vive nella disponibilità impara ad avere una fede.
Se un bambino vive nell’approvazione impara ad accettarsi.
Se un bambino vive nell’accettazione e nell’amicizia impara a trovare l’amore nel mondo.
Così recita una poesia di Doret’s Law Nolte.
Se un bambino vive Napoli, libero di crescere coltivando quei sogni che nella maggior parte dei casi, assumono le sembianze di una maglia azzurra, impara ad essere Bruscolotti, Taglialatela, Borriello, Cannavaro, Insigne, Montella, Di Natale, Nocerino del domani o più candidamente un uomo che conserva e coltiva quel genuino amore nel quale ha cullato per l’intera infanzia quel sogno e il semplice acclamare e sostenere quella maglia gli conferisce gioia ed emozioni e concorre a renderlo felice.
Se un bambino vive Napoli, noncurante delle avversità e delle problematiche che in essa sono radicate e s’impadronisce della scaltra destrezza necessaria per driblarle con un pallone tra i piedi piuttosto che idealmente, conferendo crescente fermezza e solidità ai propri valori ed ideali, allora impara ad essere un napoletano.
Ogni Nazione, ciascuna città e perfino periferia è contraddistinta dalle sue peculiari problematiche, con le quali quotidianamente si confronta, si relaziona, convive e combatte.
A volte trionfa, altre volte soccombe, ma così è in tutto il mondo e così accade anche a Napoli.
I bambini, i figli di Napoli, li imparano in fretta i problemi di questa città, insieme al dialetto, insieme alla passione per il calcio.
Già, perché in poche altre città e periferie del mondo il culto del calcio è così radicato nell’ideologia di un popolo e, ancora di più, nelle anime dei suoi piccoli, ma ambiziosi interpreti.
Tutti i bambini napoletani sognano di varcare il San Paolo, asfissiati dal calore del tifo partenopeo.
Alcuni ci riescono, altri consentono all’ombra dell’illecito e al fascino dei “soldi facili” di sporcare la purezza di quel sogno da infante, altri scelgono di volare più basso, di credere in sogni più “terreni” e pertanto più facilmente perseguibili.
Ma i bambini, tutti i bambini di Napoli, nascono con un tesoro nel cuore, immenso, smisurato nella sua ricchezza e crescendo o imparano ad impoverirlo o ad amministrarlo.
Luciana Esposito
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Articolo modificato 20 Nov 2012 - 14:08