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Quando guardiamo gli altri cerchiamo qualcosa per noi stessi; qualcosa che ci possa ricordare di non essere soli; che le passioni, i dolori, le gioie sono condivise; che tutti, allo stesso modo, siamo mossi dal medesimo fuoco e reagiamo alle batoste della vita.

Cerchiamo disperatamente un appiglio per allontanare la solitudine, trovarne la cura; scorgere negli occhi degli altri ciò che a noi manca. Anche per questo abbiamo bisogno degli idoli: per avere l’impressione, attraverso le loro imprese, di poter toccare il cielo; dimenticare l’ordinario; attraversare il mondo con lo sguardo di chi consideriamo un dio.

Ognuno di noi, nel profondo, agisce da tifoso; perché è umano cercare, nell’altro, qualche forma di riscatto. Quando il tifoso è in presenza del genio lo eleva, lo acclama, grida il suo nome; nel tentativo di trovare qualche senso, un pubblico conforto; l’unico sistema conosciuto per togliersi dalla faccia gli schiaffi della società, che mette tra parentesi la maggior parte delle esperienze comuni. Il pubblico è egoista.. Vuole il talento tutto per sé; non lo lascia in pace, pretende da lui sempre di più: giocate fenomenali, un’esultanza particolare, la vita vissuta al massimo; attorniato da beni e soddisfazioni parte dell’immaginario, del sogno.

I fan non cercano di comprendere il genio: questo è solo strumento per la personale gioia; non interessa cosa pensa, come vive, in quale tunnel si è andato ad infilare. Non sono uomini; non possono avere passioni, momenti di sconforto o rassegnazione: l’idolo è come guscio senza vita e deve soltanto entusiasmare; il suo unico compito è quello di mostrarsi.

Ma le telecamere logorano, il troppo amore rende impossibile l’esistenza; sei prigioniero della tua immagine e, spesso, le persone più acclamate, sono anche molto fragili: hanno vissuto la loro vita da emarginati, da poveri, da ragazzi di una periferia che racconta storie di grande dolore e degrado. Hanno iniziato la loro ascesa su campi polverosi e di quella polvere portano ancora i segni: ti si appiccica addosso, ti entra negli occhi, ti corrode l’anima, t’impasta la bocca.. Il ghetto non esce mai da chi lo ha vissuto.

Siamo portati a credere che l’esistenza del campione nasca e muoia alla luce sparata dei riflettori; al di là delle riprese televisive non esiste nulla.. E pensiamo sia giusto così.

Riteniamo che non sia percepito come evento traumatico essere presi da un luogo sperduto, giovani e inesperti, ed essere scaraventati nel mondo; in un tipo di mondo patinato dove tutto viene vissuto in maniera eccessiva: molti soldi, molte macchine, grandi case. E’ difficile abituarsi al cambiamento; i cambiamenti, anche se sono in meglio, se si presentano in modo violento ed intenso, non sono meno dannosi di una caduta.

La strada che porta alla gloria è tortuosa; le biografie non riescono a dare il giusto peso agli eventi; portano, davanti allo spettatore, solo dei fatti.

Riavvolgendo il nastro della memoria penso al Maradona calciatore (e ai suoi esordi); un simbolo per questo sport, lo specchio di una vita vissuta tra mille silenzi e numerose bugie: quando tutto intorno a te è rumore e luce perdi di vista ciò che sei; eppure, se dentro di te c’è qualcosa d’inespresso, tormentato, non c’è festa o sballo che possa attutire quell’assordante silenzio.

Diego, sul campo, vedeva cose che non esistono (che ancora stento a credere che siano vere): traiettorie impossibili, parabole precise, colpi tesi e affilati, dribbling al limite.. E lo spettatore guarda con la bocca aperta; Diego è immerso nel suo mondo, un universo in cui, certe immagini, esistono già e lui non deve far altro che seguire la pennellata precisa di un disegno eccezionale.

Ma quale motivazione spinge il genio a manifestarsi? Sotto certi aspetti, quando si trova nel suo elemento, non può fare a meno di essere sé stesso, sotto certi altri la ricerca continua, il tentativo d’impressionare, è un grido di dolore, una richiesta di aiuto, un modo per dire: “guardatemi, io sono qui! Ho bisogno di essere visto! Ho bisogno del vostro amore! Non voglio essere lasciato solo!”. Più questa necessità è appagata più i problemi, le dipendenze, le storture vengono dimenticate; il genio è condannato ad essere, per la folla, un dio.. Da questa cerca l’approvazione ma lascia da parte le questioni in sospeso, non si cura, non entra in contatto con la propria interiorità, esce da sé.

Così, Diego Maradona, non è più un individuo.. Si trasforma in icona. Il paradosso si può toccare facilmente con mano: le folle cercano in lui un simbolo; faro di speranza contro le rinunce a cui la vita li ha sottoposti, ma Diego, il Diego umano, nella gente vuole solo trovare un mezzo per mantenere viva la speranza, l’illusione di essere realmente invincibile.

Maradona è megl ‘e Pelè..

L’essenza fuori dal comune non si deve per forza accompagnare alla sregolatezza: tifare Diego Armando Maradona o non riuscire a sopportarlo non sono solo modi d’intendere la passione per il calcio ma, piuttosto, è un modo per dire al mondo come sei fatto; quali sentimenti animano il tuo cuore.

Pelè è il genio posato, lavoratore, all’interno dei canoni e delle istituzioni; Maradona è il reietto, il folle, l’uomo di troppo. Per comprendere l’universo di Diego Armando Maradona non bisogna cercare il paragone con chi gli è distante; è necessario trovare, nella memoria collettiva, un uomo straordinariamente vicino al lui..

Il primo vero idolo, con la passione oscura per l’autodistruzione, è stato George Best: ho un certo pudore nel parlare di questo fenomeno, forse perché, nel mio discorso, non gli ho reso abbastanza onore; ho cercato di farlo discendere da una “generazione d’immagini” impresse nella memoria.. Come se la mia passione per Diego Maradona possa rendere la figura di Best meno fulgida.

In tutta sincerità, guardando Best, sul campo (attraverso i filmati e le foto d’epoca), molte delle mie convinzioni, che credevo radicate, si spezzano: un napoletano, nato a Napoli, tifoso del Napoli non ha dubbi di chi sia più forte tra Pelè e Maradona; è facile scegliere tra questi due personaggi.. Ma la prima volta che ho visto un video che ritraeva le imprese di Best mi sono chiesto se sia veramente giusto rimanere ancorati a questa dicotomia.

Best è stato un attore del suo tempo: ha saputo eccedere il mondo del calcio; entrando in ambienti differenti dal campo di gioco.. Spazi, immaginari e fisici, che hanno animato gli anni della “controcultura”; un movimento di idee e azioni, rivolgimenti e situazioni che ha avuto come cardine il rifiuto degli schemi.

La battaglia persa da George è stata solo quella con sé stesso, con il suo fisico (tormentato dagli eccessi) perché, per il resto, era perfettamente inserito nel contesto e nelle avanguardie caratteristiche di un’epoca.

Amato dal pubblico, non solo per le indiscutibili doti di showman e talento cristallino del calcio, ma anche per il suo essere una pop/rockstar; tanto da indurre la critica a definirlo il “quinto Beatle”.

E’ stato prima di tutto artista; nel modo di presentarsi ha reso la propria vita una storia al limite, vicina all’immaginario comune: sex symbol adorato per l’aspetto e l’irrequietezza.

Quest’anima che qualcuno, con leggerezza, senza capirne il senso, potrebbe definire “artistica”, è stata il principale motivo delle rovinose cadute e degli sbagli di cui si è reso protagonista quasi inconsapevole. Se volessimo cercare un ulteriore paragone, nell’ambiente musicale, trova il suo gemello in James Morrison; voce e anima de “I Doors”, affetto da numerose dipendenze, istrionico, amato e contestato..

Personaggio alla ricerca di un rifugio per scappare dal mondo fatto di doveri e di conformismo; non ha mai trovato sé stesso se non nelle profondità di un percorso malato, volto alla distruzione di quella stessa essenza libera che lo ha contraddistinto.

Anime rapaci e fragili, quelle di George e Jim, libere nei modi di esistere ma rinchiuse nelle proprie esistenze; la vita degli uomini tormentati è ricca di mille sfaccettature, mostrano numerosi volti.. La contraddizione è lo specchio entro cui si proietta una guerra interiore mai doma.

E’ come un mostro affamato che desidera uscire allo scoperto e si ciba della tua carne e delle tue viscere, senza avere alcuna pietà: questi personaggi non riescono a trovarla in loro e neppure nel mondo esterno.

Non c’è “gioia” maggiore del vedere l’idolo cadere; il genio che si distrugge crea con lo spettatore un legame indissolubile, perché riesce a dare due emozioni egualmente intense: quella gioiosa dell’ammirazione e quella distorta e morbosa del pettegolezzo.

L’esistenza di Best è stata così ma, nonostante tutto, ha comunque saputo regalare di sé un’immagine stupenda; è commuovente soffermarsi a pensare: i suoi demoni non sono riusciti a vincere la battaglia con il tempo.. Best ha lasciato al mondo la sua forza e il mondo lo ricorda: il capello fluente e anarchico, gli occhi vispi e profondi, il sorriso beffardo, furbo; insolente e allo stesso tempo ingenuo.

Bisogna essere rimasti un po’ bambini per sapersi prendere in giro, per lasciare alcune frasi, certe dichiarazioni tragicamente ironiche e, allo stesso tempo, in grado di trasmettere profonda tristezza:

Ho smesso di bere, ma solo quando dormo

Per quanto riguarda il bere, non è che avessi davvero intenzione di smettere. In effetti era più o meno il contrario. Invece che cercare la soluzione ai miei problemi di stomaco in una confezione di medicinali, la cercavo in una bottiglia di brandy. […] Ora avevo iniziato a berne sempre di più. A volte cominciavo appena sveglio, oltre naturalmente all’autobotte di vino che mi ingollavo ogni giorno. E naturalmente più bevevo, meno sentivo il dolore. Così, con la tipica logica da alcolista, non avevo dubbi: più alcol meno dolore

L’alcol era l’unico avversario che non ero riuscito a battere, anche se avevo provato con gli Alcolisti anonimi, con l’astinenza e un paio di volte addirittura mi ero fatto cucire delle capsule di Antabuse nello stomaco: durano tre mesi e ti fanno stare malissimo se provi anche solo ad assaggiare un sorso di bumba. Nemmeno così ero riuscito a smettere

In queste parole è contenuto il senso di ciò che George è stato..E di ciò che sarebbe potuto essere; se solo fosse riuscito a mettere un freno alla sua natura violenta.

Una natura atroce: ha saputo donare molto al calcio ma non è riuscito a tenere per sé parte di quella pace che ha regalato.

Nel giorno dell’anniversario della sua morte vale la pena ricordare alcune istantanee, frammenti significativi stampati nella mente: le giocate sublimi, la forza del comunicatore nato, la fragilità e la generosità d’animo.

La bellezza vive nonostante l’uomo e i suoi errori.

Gianmarco Cerotto

riproduzione riservata

Articolo modificato 25 Nov 2012 - 10:59

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Scritto da
redazione