Senza nulla togliere al tono secco e bonario del cronista dell’Istituto Luce, molti storici hanno interpretato, forse non a torto, le figure descritte dai ginnasti del Ventennio, dalle rappresentative sportive naziste e da ogni altra rigida forma di governo, la volontà di imporre, attraverso la funzione estetica dell’atletica, il dettame imperiale della dominazione. E non si sta parlando solo di quella geografica.
Il calcio no, non servì subito a questa funzione, o, almeno, disponeva di vie di fuga dal controllo del potere, proprio perché facilitato dalle crisi del potere. La guerra, le invasioni, le dominazioni, i controlli segreti e la propaganda, garantivano alla politica tutto quanto necessario per incantare le popolazioni, ma il calcio riusciva a conservare un ampio raggio d’azione ribelle, clandestina, al di fuori dagli schemi della tattica propagandistica.
Il paradosso fu che le stesse grandi tragedie di quegli anni, fino all’apparente pacificazione del dopo guerra, lasciarono spazio alle manifestazioni più umane di questo sport, talvolta anche fino all’estremo sacrificio, di natura pressoché religiosa, che questa disciplina induceva a compiere ai suoi adepti, molto spesso condannati all’anonimato. Durante la prima guerra mondiale, quando ormai la fusione “meticcia” con il continente americano, aveva completato in qualche modo la linea guida dell’evoluzione calcistica, il pallone diventò la pausa breve della furibonda contesa della guerra, l’interruzione delle ostilità, lo spegnimento, a tratti miracoloso e surreale, della spia sempre accesa della caccia all’uomo.
Non fu un caso che, nel 1915, durante la prima guerra mondiale, nacque uno dei primi giornali sportivi. L’Hurrà fondato da alcuni sostenitori della Juventus. Così come non fu un caso che a ridosso della disfatta di Caporetto, in Italia si continuasse a giocare a pallone, tra squadre che non erano compagini improvvisate, ma rappresentative di club di quel periodo, fondate da tempo in città come Milano, Genova e Torino.
Durante le due guerre, si verificò un paradosso particolare, che attinse nuova energia per la definitiva popolarizzazione del calcio. Gran parte dei soldati italiani al fronte, era composta da contadini, operai, manovali, o comunque ragazzi appartenenti a ceti meno abbienti, sin dalla nascita costretti a quell’invecchiamento anticipato al quale l’aridità di una vita miserevole e colma di stenti li aveva già sottoposti. Con la tragedia delle due guerre il pallone subì un definitivo allargamento, diventando ragione di evasione, talvolta di affrancamento e di liberazione. Il futbol, ancor prima della consacrazione del dopoguerra, aveva rivelato il suo volto rivoluzionario e gioioso, concedendo dignità a chiunque riuscisse a crearsi la propria regione calcistica.
Dopo la guerra, poi, le cose sono cambiate, e lentamente il calcio ha assunto un ruolo sì tanto popolare, ma più rivolto all’intrattenimento e alla passione utile a distrarre le masse dalla vita politica di un paese.
Si potrebbe riflettere sulla stessa bibliografia di genere, per scorgere sottili ma distinte linee di confine tra i palloni separati dalla guerra. Anche le stesse tragedie civili e militari legate all’ampia aneddotica storica che si lega al calcio, dal dopoguerra ad oggi muta di significato. Rinchiude l’uomo in una complessa percezione di libertà, invece che liberarlo nella spontanea clandestinità della necessità assoluta, quella sorta dentro gli orrori e le brutalità della guerra.
Anche il linguaggio calcistico, in Italia, ha compiuto il suo percorso, prima fuggendo la censura di quando erano vietate le parole inglesi, e poi acquisendole tutte, miste alla grazia linguistica dei primi geniali cronisti del pallone, come Niccolò Carosio, capaci di inventare una nomenclatura figlia della fusione tra la modernità anglosassone e l’identità linguistica italiana. Non è un caso che scrittori come Kapuscinski, abbiano raccontato di un calcio più recente, ma pure più disincantato e realistico, nel senso più tragico, di quello narrato da Saba, in contemporanea con gli avvenimenti, oppure Voltolini, dedito al racconto romantico del calcio di primo Novecento.
Un futbol lungo più di un secolo, diviso in due dalla crepa più profonda del Novecento? Può darsi. Oggi, non se ne vedono più di forme ardite che volteggiano a voler imporre col senso raffinato e rigoroso delle cose un proclama politico o un diktat di regime. Corre tutto più facilmente, ma il rischio è che non si comprende se questo avvenga con danno, vantaggio o privo di sensazione. Il calcio si allena col tempo, e, come ha scritto Ionesco, “Voler essere del proprio tempo significa voler essere già sorpassati”.
Sebastiano Di Paolo, alias Elio Goka