Il giorno dopo siamo tutti educati. Il day after ci consegna l’ennesima brutalità e noi ci allineiamo allo spirito di appartenenza che improvvisamente ci vede tutti paladini della salvaguardia.
Napoli in questo è maestra. La Città della Scienza è andata distrutta, quasi sicuramente per cause dolose poco chiare, e la metropoli si stringe attorno alle ceneri. La stessa metropoli che, di solito, si aggira tra i rifiuti, si asservisce a un sistema industriale che avvelena luoghi e persone, che si piega col sorriso di quella tiepida e patetica prudenza davanti ai diktat di un mercato del lavoro che ha come principale obiettivo la dominazione del dipendente, che stringe la mano alla peggior classe politica degli ultimi sessant’anni, ossequiandola con la speranza di ottenere un lasciapassare per chissà quali angusti privilegi, che ignora il degrado non soltanto urbano, ma soprattutto quello della dose massiccia a danno proprio di quel patrimonio che tanto clamore risveglia quando, improvvisamente, l’azione disumana di una mano ignota lo assale violandone valore e intimità.
Vogliamo elencare tutti i monumenti, tutti i siti culturali, tutto il campionario patrimoniale, antico e non, che a Napoli sopravvive, decadendo, sia ben chiaro, decadendo, in stati di inimmaginabile abbandono? Non basterebbero tutti i pianti civili per stilare un elenco.
A Napoli spariscono i libri pregiati dalle più importanti biblioteche. Chiese, siti archeologici, edifici antichi, musei, monumenti, luoghi di riferimento culturale, abitazioni di personaggi illustri, teatri, piazze, strade e ogni altro valore storico, antico o recente, reclamano da tempo l’attenzione necessaria almeno alla loro sopravvivenza. Ne ho visti non so quanti di cittadini passeggiare e passare affianco a questi, senza nemmeno accorgersene. Ne ho ascoltati personalmente tanti di addetti ai lavori – parlo anche di impiegati, custodi, studenti praticanti, o anche affezionati – che mi dicevano che per i capolavori di Sant’Anna dei Lombardi, per citarne una (potremmo dire lo stesso della Sanità, di Materdei e di tanti altri quartieri), possono soltanto contare sul passaparola, perché nessuno si ferma a visitarli, perché la politica non se ne cura. Ne ho ascoltate e viste di testimonianze rassegnate di fronte al fatto che l’incuria è la voce privilegiata nella nostra agenda civile.
Napoli avrebbe bisogno della spensieratezza, di non essere più appetibile, affollata, con quella isterica necessità che a tutti i costi pretende che sia rimessa a nuovo. Ve li ricordate i manifesti in stile belle epoque di prima della guerra? Quelli con le donne svestite davanti alla reclame. Quanta nostalgia per il balzo spontaneo e malizioso davanti a quel pudore un po’ provinciale, dell’avventore che vede arrivare in paese il baraccone dei saltimbanco. Ecco, la Napoli della ricuperabilità, dovrebbe recuperare prima di tutto questo, il confine umano degli avamposti del nulla a pretendere.
Forse sarebbe ora che Napoli smettesse per qualche tempo l’abito indurito dalle intemperie degli eventi funesti, che lasciasse in camerino il costume di scena, per scomparirvi, dalla scena, assentandosi senza nemmeno dare troppe spiegazioni, che rifiutasse il luogo comune recitato a braccio, che la vuole a tutti i costi città lurida e lustrata, contraddittoria, eternamente in preda ai dolori della storia e tenuta in pugno dai drammi piantati in mezzo alle strade come i monumenti.
Forse sarebbe il momento di lasciar partire i compratori di gloria, di indirizzare altrove i mercanti di suggestioni, le comari dal vocio spericolato, i preti della mistica profana, i confessori, i diavoli e i volti angelici. D’accordo che se ne andrebbero lontano pure le minuzie preziose che fanno della Napoli sfinita una capitale di ricongiungimento, ma è anche vero che una diaspora provvisoria non farebbe male a una regione del tormento che nei secoli ha voluto tenersela stretta, quella inquietudine necessaria, quel segno particolare a danno della sua originalità perduta.
Sarebbe meglio che nessuno più la cercasse, che nessuno più se ne prendesse cura con le parole di prospettiva che, in fondo, sono un principio d’abbandono. Che vi si aggirino i suoi spiriti condotti, presi per mano da un Minotauro privato che senza spargimenti di sangue li disperda con la ferocia della solitudine.
Sarebbe il caso che una mano invisibile sfogliasse la pelle ruvida di questo spazio d’imprevedibilità, riconsegnandolo alla fanciullezza spensierata di un luogo di provincia, che qualcuno la convinca a deporre la posa forzata dell’alto bordo, chiedendole di tornare bambina e di consegnarsi a una nuova leggiadria. Che si procuri presto un severo e rigoroso anonimato, che riapra i battenti di una nuova officina spirituale, facendosi vergine, da nessuno considerata, nell’arrendevolezza di una densità che possa finalmente fare a meno di imitarla. Soltanto così, perdere il rischio di perdere, sperimentando la leggerezza di quei luoghi dove ogni giorno qualcuno si ferma e si gode una sosta, disponendosi a quel lieve piacere improvviso di trovarsi dove non ci si aspettava.
Una cosa è più vera di quello che arriverà a schiarire l’oscurità del caso. È che si sbaglia di grosso chi crede che il dolore, comunque esso sia procurato, in qualche modo nutra la maturità di chi deve sopportarlo, come per quella stravagante teoria della città che è affascinante perché addolorata. Il dolore dall’esterno fa l’effetto di qualcosa che soltanto vagamente può essere percepito. Starci dentro è tutta un’altra cosa. Napoli ci sta dentro da nessuno sa quanto tempo. Nonostante la sua proverbiale dimestichezza con l’incalcolabile, qualcosa di lei corre verso la più irreversibile consumazione .
Ne “Le città invisibili”, Italo Calvino scrive un pensiero che alla luce di quanto accaduto risuona tremendo. “D’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”. Napoli, di risposte, non ne dà. È un interrogatorio sempre aperto che manca del sospettato.
E noi, col solito spirito caritatevole, ci stringiamo attorno alle ceneri di un rogo che si è consumato dentro un rogo più grande, e ancora vivo.
Sebastiano Di Paolo, alias Elio Goka