Non che fosse una novità, vista la lunga storia dell’uomo rivolto alla sopportazione soltanto se soddisfatto attraverso l’effimero e superficiale appagamento delle frivolezze e degli oppi di massa. Il ventesimo secolo, dopo la provocatoria definizione di Marx sul valore effettivo delle religioni, aveva trovato l’alternativa profana alle sacre istituzioni. Il pallone come applicazione religiosa della passione popolare.
Lo intuì molto bene Benito Mussolini, precursore, in qualche modo, della combine calcistica come mezzo per l’affermazione propagandistica, indirizzata alla valorizzazione della dirigenza politica per lo scopo primario del culto della personalità. Un grande dittatore ha sempre bisogno del consenso popolare, in qualsiasi condizione egli debba sviluppare il suo progetto totalitario. Al buio o alla luce del sole, deve muoversi senza che i sospetti e i mugugni prendano il sopravvento sul convincimento collettivo che la sua opera sia giusta e benefica, se non addirittura necessaria.
Sulla necessità, invece, del duce, di far correre la macchina della propaganda anche sul binario calcistico, spunti di interesse sono stati sviluppati nel saggio di Simon Martin, “Calcio e Fascismo”, edito da Mondadori. Il libro ripercorre, attraverso aneddoti e analisi storiche, i principali momenti dei ravvicinati contatti politici tra il fascismo e il calcio italiano e di come la più seguita disciplina sportiva abbia cavalcato il potere del ventennio per svilupparsi e per ottenere grandi successi.
Fu nel Campionato del Mondo del 1934, che il duce si adoperò prima per ottenere l’assegnazione dell’Italia come sede del torneo, e poi per far sì che il risultato raggiunto fosse quello più utile a lucidare l’immagine del fascismo. La vittoria. E vittoria fu.
Già durante la preparazione atletica della squadra nazionale, Vittorio Pozzo aveva allenato e motivato i calciatori azzurri attraverso modalità che, in maniera diretta e indiretta, si ispiravano ai proclami nazionalistici del fascismo, al senso della vittoria, ai valori patriottici e alle gesta eroiche dell’atleta, inquadrando questo metodo psicologico in una linea comunque dettata dalla guida politica di quel periodo. Lo stesso Mussolini aveva fatto sì che l’Italia giungesse preparata all’evento, successivamente allo sviluppo delle infrastrutture calcistiche e dei rapporti dirigenziali tra il governo e gli organismi sportivi. Erano stati migliorati i servizi pubblici di collegamento tra i centri cittadini e gli stadi, erano stati effettuati investimenti pubblici sulla stessa formazione sportiva, favorendo così, il livello tanto di attenzione quanto di partecipazione a quello che sembrava nascere come una sorta di “azionariato popolare gratuito” al luogo del calcio.
Era stato possibile consolidare il rapporto politico tra l’attività atletica e la disciplina militare, sovrapponendolo a quel processo di “arruolamento” generale su cui Carlo Levi si è chiaramente espresso. “Una volta inquadrati attraverso attività che riempissero il loro tempo libero, gli eventi sportivi li avrebbero tenuti lontani dai crescenti problemi sociali, politici ed economici. All’interno delle organizzazioni sportive si sarebbe potuto fornire un indottrinamento semplice e accessibile, corredato da nozioni generali di cultura fascista, valvola di sfogo da una parte e sistema di controllo dall’altra”.
Uno dei luoghi simbolo dell’affermazione fascista rispetto alla passione popolare per il calcio, e, viceversa, è l’attuale stadio “Renato Dall’Ara” di Bologna, allora, nel 1926, inaugurato col nome di “Littoriale”. L’impianto, ancora oggi utilizzato dai rossoblu, fu fortemente voluto dal fascismo che, nella persona di Leandro Arpinati, ne seguì i lavori di costruzione e l’evento di inaugurazione. Arpinati, vice segretario generale del Partito Fascista italiano e, in seguito, podestà di Bologna, aveva conosciuto Mussolini da anarchico. Ne era rimasto affascinato e lo aveva seguito nel suo progetto politico, fino al coronamento della costruzione del Littoriale. Il 31 ottobre del 1926, giornata di inaugurazione dell’impianto, si caratterizzò per l’attentato a Mussolini, ad opera del quindicenne Anteo Zamboni, soprannominato il “Patata”, a causa della sua scarsa intelligenza. Zamboni era figlio di un ex anarchico, anch’egli passato dalla parte di Mussolini, ma il carattere chiuso e taciturno lo aveva sempre tenuto in disparte dalle vicende familiari, al punto di isolarlo fino a quel fatidico giorno in cui morì sotto le pugnalate degli squadristi, dopo aver miseramente fallito l’agguato al duce.
Con l’apertura del Littoriale, il calcio di matrice fascista aveva raggiunto la sua consacrazione. E, come prevedibile, lo stadio bolognese fu scelto come una delle sedi principali per lo svolgimento della Coppa del Mondo del 1934. Una volta organizzato il torneo, secondo numerose testimonianze e diversi documenti storici del tempo, Mussolini si occupò personalmente delle assegnazioni arbitrali, assicurandosi che il direttore di gara determinasse i risultati nella maniera più favorevole alla nazionale italiana.
A tal proposito, è restato negli annali, l’episodio della semifinale di Milano, tra l’Italia e l’Austria del grande Sindelar. Pare che Mussolini, prima della partita contro la squadra più temuta di tutto il torneo, avesse fortemente voluto che l’assegnazione di gara fosse affidata allo svedese Eklind. La volontà del duce fu accolta e l’arbitro nordico diresse la semifinale di Coppa del Mondo tra gli italiani e gli austriaci, a Milano, disputata su un terreno di gioco al limite dell’impraticabilità. La partita fu vinta dagli azzurri di Pozzo per 1 a 0, ma l’arbitraggio di Eklind risultò determinante, grazie ad alcune decisioni, piuttosto discutibili, prese a favore della squadra allenata da Pozzo.
L’Italia, già nei quarti di finale si era qualificata in maniera “rocambolesca”, eliminando la Spagna dopo la ripetizione dell’incontro. La prima gara era terminata in parità, grazie a un goal, quello italiano, segnato su carica al portiere spagnolo Zamora, rimasto infortunato dopo quell’azione. Nella ripetizione della partita, la Spagna, orfana dell’infortunato Zamora, aveva dovuto cedere il passo agli italiani.
Un episodio analogo si verificò proprio nella semifinale con gli austriaci, vinta grazie alla rete dell’italo-argentino Guaita, grazie a una carica al portiere austriaco al limite del regolamento. Il giorno prima, l’allenatore dell’Austria, Hugo Meisl, aveva apertamente dichiarato di temere l’arbitraggio.
In finale, Mussolini, in vista della partita con la Cecoslovacchia, contrariamente alle attese che avrebbero desiderato un’accorta designazione per la gara dalla quale sarebbe uscita la squadra campione, richiese nuovamente l’arbitraggio di Eklind, che, il giorno della finale, salì fino alla tribuna d’onore per salutare le autorità fasciste. La partita terminò col risultato di 2 a 1, grazie a una clamorosa rimonta nel finale, da parte della nazionale allenata da Pozzo, in prevalenza composta da calciatori della Juventus, e, per questo, soprannominata “Nazio-Juve”.
L’Italia conquistò il suo primo titolo mondiale e Mussolini raggiunse lo scopo politico diretto a dimostrare il valore sportivo del proprio paese, vincente anche grazie agli interventi del governo fascista.
Qualcuno, aderendo alla pratica propagandistica del culto della personalità, come Mussolini, applicò al calcio il teorema della dominazione. Maneggiando, tanto con cura quanto con spericolatezza, le misure della vittoria e della sconfitta, segnò con orrore altre pagine nere del “Secolo breve”, riparando, irrimediabilmente e con disonore, nell’epilogo peggiore che possa capitare a un uomo che pretende di spadroneggiare su entrambi i versanti, quello della vittoria e quello della sconfitta. L’autodistruzione, per non aver rispettato il misterioso significato dell’una e dell’altra.
Sebastiano Di Paolo, alias Elio Goka
Articolo modificato 16 Mar 2013 - 18:15