Valon, ti fai notare subito per i tuoi capelli e tatuaggi, cosa significano per te?
“E ‘difficile da spiegare. Ho cambiato diversi stili negli ultimi anni, l’età porta con sé numerosi cambiamenti ed una maturità diversa. Da ragazzo mi piaceva vivere in modo istintivo, fare tatuaggi non pensando che sono marchi indelebili sulla pelle. Poi si cambia e si capiscono tante cose. Ora, con la nascita di mia figlia sono più calmo ed equilibrato. Prima ho fatto quello che ritenevo giusto, senza pensare alle conseguenze, senza chiedermi la gente che impressione avesse di me. Oggi non posso ragionare così, prima di parlare in pubblico rifletto tanto, soprattutto sulle possibili conseguenze. Sono diventato più cauto e mi sento anche più a mio agio quando mi trovo tra la gente”.
Hai rimpianti?
“No, ognuno commette degli errori nella propria vita, l’importante è imparare da questi. Mi dispiace solo che molte persone si sono fatte un’idea particolare di me di calciatore e persona ancor prima di conoscermi, estremamente diversa dalla realtà. Non sono così folle come molti pensano, me lo dicono spesso anche i compagni di squadra”.
Quando giocavi alla Lazio, ti chiamavano “Cavallo Pazzo”. Come mai?
“E’ vero, era difficile tenermi a bada. Ero giovane e single ma anche la stampa ne approfittava. Capitava di andare a ristorante ed uscire alle 23 mentre poi il giorno dopo leggevo orari completamente diversi, con illazioni non da poco. Ci sono cose di me che non posso cambiare, ad esempio i capelli. Li tingo soprattutto per scaramanzia e devono essere sempre biondissimi ed in ordine. L’unica volta che li ho scuriti infatti, fu il periodo più brutto della mia vita con l’infortunio ai legamenti nel 2009 quindi non rischio più”.
A cinque anni sei arrivato in Svizzera con i tuoi genitori, in fuga dalla guerra nell’ex Jugoslavia. Quanto è stata difficile la tua infanzia?
“I miei genitori hanno avuto una vita durissima prima di venire in Svizzera. Nonostante ciò, sono cresciuto normalmente, non mi mancava nulla, tutto era meraviglioso anche qui in Svizzera, ero piccolo e non mi rendevo troppo conto del mutamento. Sono cambiate tante cose ma sono felice di regalare oggi a mia madre ed a mio padre delle belle goie, ripagandoli di tutti i sacrifici che hanno fatto per me”.
Cosa rappresenta per te la Svizzera?
“Solo oggi mi rendo conto di quanto questo Paese abbia fatto di positivo per me. E’ grazie a questo grande cambiamento nella mia vita che sono diventato l’uomo ed il calciatore di oggi. Voglio vivere qui anche alla fine della mia carriera, mi trovo benissimo e la sento come casa mia”.
Tu, Inler e Dzemaili quali caratteristiche avete dello svizzero tipico?
“Sicuramente l’attitudine al lavoro. Mi dicono a Napoli che io Inler e Dzemaili diamo sempre il cento per cento in campo. Stiamo maturando tanto tutti insieme in questa esperienza partenopea”.
Ci sono degli aspetti del Napoli e di Napoli che non ti piacciono?
“Sicuramente lo scotto da pagare è la poca libertà, visto che si è sempre al centro dell’attenzione e spesso non si può tranquillamente nuscire per le strade della città con la propria famiglia poichè si viene bonariamente assaliti dal tanto affetto dei tifosi. Ma è proprio questo che dà tante motivazioni e ti fa proseguire sempre con la stessa grinta dell’inizio”.
Cosa hai provato quando hai subito la rapina a Napoli?
“E’ successo tutto davvero in fretta. La prima cosa che ho pensato è stata che poteva andare peggio ma soprattutto che episodi simili possono capitare ovunque. I miei compagni mi sono stati vicino, mi hanno tranquillizzato e consigliato di non indossare più orologi o oggetti di valore. Purtroppo la città di Napoli sta attraversando un brutto momento, c’è tanta disoccupazione e numerosi problemi. Come calciatore vivo una vita privilegiata e devo stare sempre attento a ciò che dico e ciò che faccio”.
Dicono che in Nazionale sei un vero leader, anzi, un boss.
“Ma no, assolutamente! La forza di questo gruppo è che tutti possono parlare. e vengono valutati allo stesso livello. Quand’ero giovane non era così, è stato più difficile entrare in una squadra già forte. Ora Gökhan Inler è il capitano, io sono qui già da tempo. Di sicuro però, c’è il fatto che quando Xhaka e Shaqiri sbagliano, sono il primo ad avvicinarli e parlare con loro per dare dei consigli. Ciò viene con l’esperienza ma in realtà, questo gruppo è già ben gestito. L’allenatore controlla tutto, si sente quando qualcosa non va e raddrizza subito il tiro. Sto bene qui e tutti si sentono a proprio agio, significa anche prendersi la responsabilità di essere in disaccordo con ciò che decidono i piani alti ma è una caratteristica del mio carattere. L’allenatore ci capisce con uno sguardo e ciò fa di noi una squadra umile e davvero forte”.
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