Edito da Sperling e Kupfer Editori
A guadarlo adesso, “90’minuto” sembrerebbe una trasmissione di seconda fascia, dentro il palinsesto di una rete di provincia, di quelle dove tutt’al più ci trovi qualche televendita, un telegiornale cittadino, la ripetizione ossessiva di un vecchio film e una telenovela sudamericana, nemmeno di quelle più conosciute.
Invece era la RAI, incastrata dentro gli accordi della “prima repubblica”, quella della Democrazia cristiana, del partito comunista e dei socialisti. Allora, le paresi dell’inviato che non sapeva se cedere o no la linea, le pettinature sistemate alla bell’e meglio, gli accenti sgraziati, le pronunce maldestre, le cuffie grandi come le orecchie di Dumbo e lo sfondo di una fotografia di uno stadio vecchia di vent’anni, erano tutto il professionismo della cronaca. E professionismo lo era per davvero, con quella modalità fissa, sistematica, che tutti i telespettatori avevano imparato a memoria, come la messa, come col foglio distribuito in chiesa prima della funzione.
Novantesimo minuto guidava il tifoso col suo libretto d’opera, sempre lo stesso, che quando cambiava era un’eccezione che a tratti quasi infastidiva, oppure aumentava il desiderio e l’ansia di vedere la cosa più importante. I gol, annunciati anzitempo dentro quei montaggi, i “riflessi filmati”, che qualche volta non venivano neanche troppo bene, anche perché poteva capitare che la ripresa di un’azione fosse affidata alla prontezza e all’attenzione dell’operatore, che poteva pure perdersela, una giocata importante. Che responsabilità, specie di fronte alle imprecazioni del telespettatore.
Dipollina passa in rassegna una nostalgica kermesse di vecchi volti di quel giornalismo televisivo, e non solo, che viveva di quell’entusiasmo essenziale, che si attribuiva serietà attraverso il converso del grottesco, composto nei look senza pretese, nell’umorismo di Luigi Necco, nei rendiconto quasi burocratici di Cesare Castellotti, nella risata stretta di Gianni Vasino, o nell’accento da toscanaccio ardito di Marcello Giannini, soprannominato “Il Nostro” di Firenze, nomignolo altrettanto ardito che lo mandava su tutte le furie.
Quel Novantesimo, l’unico, l’originale, che s’è ripetuto dopo, inutilmente, quando il calcio è definitivamente cambiato, aveva la faccia di Tonino Carino, che ispirava quasi tenerezza, il muso stretto di Ferruccio Gard, cronista, pittore e cravatte improponibili, del quale non tutti sanno che alcune delle sue opere sono state esposte presso importanti musei internazionali e che hanno arricchito mostre di primo piano, come quella organizzata a Roma nel 2011, nella Galleria di Arte Moderna, la più grande mai realizzata.
Per dirne un’altra, Luigi Necco, per esempio, è stato giornalista non proprio di “settore”, per anni impegnato sul fronte politico e sindacale, al punto da “conquistarsi” le antipatie della camorra, che, con modalità quasi annunciate, tanti anni fa, gambizzandolo, lo punì per la sua verve “troppo seccante”. Come scritto nel libro di Dipollina, pare che in quell’occasione c’entrassero Sibilia, presidente dell’Avellino, e addirittura Raffaele Cutolo. Roba non da poco.
Era, quello, un Novantesimo messo su dalla Rai quasi per dare una dimostrazione di stravagante italianità, nel suo arlecchino democristiano, comunista, socialista, un po’ leghista e abbastanza meridionalista. L’orchestra, affidata alla cura e alla guida di Paolo Valenti, tifoso viola che abiurò a lungo la sua fede calcistica per ragioni professionali. Della sua Fiorentina si seppe quando non serviva più. Altri tempi.
Com’erano altri tempi quelli raccontati da Dipollina, nel suo libro dove la prefazione è firmata Gianni Mura, che cifra con un amaro e malinconico Parce sepulto, a mo’ di titoli di coda alla citazione di un canto d’osteria. Ma la fine di quel Novantesimo nessuno l’ha mai fischiata.
Sebastiano Di Paolo, alias Elio Goka
Articolo modificato 12 Apr 2013 - 02:34