Se Cecile Kyenge dice che certi cori non sempre sono razzismo, allora un pizzico di faccia tosta si può pure tirarlo fuori. E non perché la Kyenge faccia il ministro, e nemmeno perché l’origine napoletana, che il sottoscritto ha il dovere di ignorare, autorizzi a rivalse e ritorsioni di matrice “razziale”, ma perché la signora Cecile è “di colore”, e quindi, per quanto serva a qualcosa, e serve, un po’ ci conforta.
Ci conforta perché forse dal sottobosco intellettuale della politica riemerge un intimo di onestà intellettuale, che almeno cerca di evitare di aggiungere colpi e danni alla beffa, che, sia pur in minima parte, fa il tentativo di usare la propria posizione per far passare un significato perduto tra le esigenze, ormai di largo consumo, della propaganda di una certa parte, ahinoi maggioritaria, di un antirazzismo che vede le streghe soltanto laddove conviene.
Me li ricordo certi personaggi, quando erano altrove. Isolati dalla nazionale di calcio, dalla federazione, dal tifo e dall’opinione pubblica. Raccontati da una certa cronaca solo per le malefatte e messi in piedi solo ed esclusivamente con la pretesa di definirli già adulti, perché la loro professione vuole che tali siano fin da giovanissima età. Oggi, che più adulti dovrebbero esserlo davvero, soltanto perché vestono casacche protette, in luoghi dove ci si nutre di pallone, e non per passione ma per puro esercizio di potere, sono improvvisamente diventati eroi da salvaguardia nazionale. Lassù, tra gli spalti di mezza Italia, la becera abitudine all’imbarbarimento è sempre esistita, così come laggiù, in mezzo al campo, ne sono state sopportate, spesso pure sotto silenzio, di cotte e di crude.
Adesso, per carità, non si fraintenda. Nessuna giustificazione per le azioni “poco garbate”. Ma non potrebbe essere altrettanto fuori luogo, e pure un po’ vigliacco, trasformare l’antirazzismo in un’usanza a orologeria? Una formula retorica che in certi casi trascura la vittima, e in altri ne amplifica valori e gesta. Un poema epico moderno, di urla e di urlatori, pure un po’ decadente, dove certi proclami sanno più di somministrazione.
Perché i giornali e le televisioni adottano testimoni d’eccezione, talvolta scegliendo pure tra quelli meno bisognosi, e li ergono a vittime e a protagonisti di un vittimismo che offende prima di tutto le vere vittime di un fenomeno che non può essere risolto con la solita campagna di comodo che manda morali e coscienze in lavanderia.
Ah, pardon, adesso qualcuno penserà che dire certe cose è da razzisti. Pazienza. Mi sento in buona compagnia. In fondo, è pure una questione di disinvoltura. Più ci si avvicina all’equatore e più ci si sente a casa, pure per i pensieri scomodi. L’ha detto pure Cecile Kyenge, che non tutto deve avere l’amaro sapore del razzismo. Ma forse anche questo concetto è da fascia protetta.
Sebastiano Di Paolo, alias Elio Goka