Il 4 giugno del 1994 Massimo Troisi spirò nella casa di un suo vecchio amico d’infanzia, a Ostia, il quartiere marino di Roma. Erano appena trascorse poche ore dalla fine delle riprese del Postino. Nonostante i riconoscimenti popolari, di una parte consistente della critica e del mondo del cinema, in più d’una occasione Massimo Troisi aveva dovuto fare i conti con qualche sbrigativa e disattenta provocazione circa la sua abitudine alla parola dialettale, per alcuni abusata, rispetto alla necessità di allargare la comprensione delle sceneggiature del suo cinema a un pubblico più vasto, che potesse così apprezzare anche quella presunta italianità che, in fondo, a Troisi non stava così a cuore, specie quando, a ogni domanda sul suo dialetto, lui rispondeva che era l’unica lingua che sapeva veramente parlare.
E il suo, a differenza della piega che il cinema stava prendendo in quel periodo, non era un fare sbrigativo. Tutto il contrario, perché l’attore di San Giorgio a Cremano sapeva bene come risolvere l’inghippo delle sue sporadiche incomprensioni. Che la vita stessa era per lui una forma d’incomprensione, e che alle persone, in fondo, di tanto in tanto, fa pure piacere di non essere comprese.
Ecco che la recitazione di Massimo Troisi bisbigliava le sofferenze di una maschera tenuta dentro, nascosta ai facili giudizi, alle incomprensioni, al gusto frivolo e svampito delle nuove sensibilità artistiche. In parte, era come se Massimo Troisi avesse sentito la necessità di salvaguardare uno sguardo illuminato su quel buio che pian piano stava facendo capolino dietro l’alba annebbiata di un tempo nuovo e smarrito.
Troisi raccontava la malinconia, rifiutando ogni interpretazione che lo volesse vicino esclusivamente alla risata e alla spensieratezza. Quella dell’ultimo grande attore napoletano (laddove per attore napoletano s’intende chi parla, vive, si comporta e lavora come un napoletano, senza dover attingere a preziosismi scolastici e artificiosi, o a stereotipi e a banalità) è stata una missione segreta e silenziosa, capace di afferrare tutta la storia recente di una città e di una cultura popolare, facendole rivivere attraverso la quotidianità di ogni momento che potesse appartenere a chiunque invischiato nella vita di tutti i giorni. Per farla breve, a tutti. Massimo Troisi ha dato pane morale a tutti. Quando se n’è andato, mi sono accorto che ogni sua battuta era rappresentazione di quello che vedevo o di quello che a volte addirittura mi capitava. Troisi è stato la voce di tante generazioni, soprattutto di quelle che hanno cercato e cercano di salvare una parte trascurata delle abitudini e della pigrizia, dell’ozio convinto e felice, che custodisce l’opportunità dell’idea capace di restituire buonafede e umanità all’errore e al suo imbarazzo.
Ricordo che quando appresi la notizia al telegiornale, al Tg 2 della RAI, edizione pomeridiana, rimasi con gli occhi fissi davanti al televisore, e me ne andai senza dire una parola, come succede quando vai a casa di qualcuno che non c’è più e, se non conosci nessuno, gli lasci col pensiero un ultimo saluto che diventa ancora più discreto e silenzioso.
Il portalettere Mario Ruoppolo, interpretato dal volto smunto e provato di Troisi, nel finale del Postino va incontro al sacrificio della rivoluzione, mentre Massimo Troisi era già da tempo andato incontro alla sfida con se stesso, quella di giungere fino in fondo all’ultima fatica, quella per la quale avrebbe sacrificato qualsiasi cosa. “Il comico dei sentimenti” aveva finalmente confessato la sua indole dolorosa, facendone parola poetica lineare e irraggiungibile, netta, al di sopra della lingua che una parte della critica gli aveva sempre contestato, e della scelta di professarla fino all’ultimo istante, nel tragico epilogo che aveva fatto coincidere i titoli di coda del suo ultimo film con quelli del suo ultimo giorno di vita.
È inquietante, e allo stesso tempo sbalorditivo, come a tanti uomini d’arte il destino riservi le più singolari fatalità. Ma c’è chi questo lo sa sin dall’inizio, e allora, nel bel mezzo della sorpresa, oltre che della dimenticanza e distrazione generali, dedica le sue cure a quel principio che diventa poco a poco fine. Dopo, tutto resta com’è, mentre i titoli di coda proseguono. Massimo Troisi una volta, in un’intervista rilasciata a Vincenzo Mollica, disse “La parola fine è brutta, non mi piace”.
Sebastiano Di Paolo, alias Elio Goka
Articolo modificato 4 Giu 2013 - 10:41