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Esclusiva SN – Gianni Mura: “Mai perdere l’importanza della parola scritta. Benitez? Bravo allenatore”

Gianni Mura è tra i più autorevoli giornalisti italiani. Ha lavorato per la Gazzetta dello sport ed è stato direttore, insieme a Maso Notarianni, della rivista di Emergency. Scrive molto di sport, in particolare calcio e ciclismo. Ha pubblicato opere narrative con Minimum Fax e Feltrinelli. “Ischia”, uscito nel 2012, è il suo ultimo romanzo. Collabora con Repubblica, è un estimatore del poeta Alfonso Gatto e professa con ardore ed eleganza il valore del “giornalismo letterario”.

Gianni, lei ha formato l’impianto intellettuale che oggi rappresenta la “fazione” letteraria del giornalismo italiano, in particolare quello sportivo. Lo ha fatto con Gianni Brera, Beppe Viola, Gino Palumbo, Gualtiero Zanetti e altri illustri esponenti. Un modello per lei vivo e pulsante, ma che oggi sembra essere relegato ai margini del giornalismo di nuova generazione. Pensa che quel tipo di giornalismo sarà perduto o in qualche modo tradotto?

Secondo me, stiamo rischiando di perderlo. Io stesso mi considero un “superstite alla strage”. Le tecnologie hanno cambiato tutto. Una volta erano i giornalisti ad andare a caccia di notizie. Oggi sono le notizie che arrivano ai giornalisti. È cambiato il moto a luogo. Questo comporta la mancanza di nuovi inviati, di una scuola mediana dell’inviato, una figura che ormai sembra essere rarefatta. Ne risentono i pezzi, che sono di minore qualità e a vantaggio di servizi che badano più ai titoli e alle foto che ai contenuti. Ricordo il Mondiale del 1982. Le penne di spicco della cronaca sportiva erano Brera, Soldati, Arpino e Del Buono. Quando l’Italia ha vinto i mondiali del 2006, non ricordo lo stesso livello giornalistico. Si sta verificando un processo pericoloso. Il più bravo è il più veloce, non chi sa scrivere bene. Si bada a guadagnare il mezzo minuto, e non la qualità, forse pure a causa della mancanza di investimenti intorno all’editoria giornalistica cartacea. La parola scritta sta perdendo il suo valore.

Lei segue e scrive anche di ciclismo, uno sport travolto spesso da scandali legati al doping, una piaga che colpisce molti altri sport, come pure il calcio. Cosa pensa di questi ragazzi che gareggiano sapendo che da un momento all’altro rischiano di andare sotto processo?

Rischiano prima di tutto la salute. Sono irragionevoli, perché non capiscono nemmeno che possono essere facilmente scoperti. Da alcuni anni, per motivi professionali, seguo soltanto il tour, ma, in generale, il giornalista può dire certe cose solo quando le vengono a sapere tutti, perché alcuni tipi di notizie sono legati alla riservatezza d’indagine e alla certezza dei controlli. Nel ciclismo sono caduti molti miti. Armstrong la faceva franca perché lo avvisavano prima dei controlli. Ma nel ciclismo non sono tutti drogati. C’è pure chi lo fa seriamente. In fondo è uno sport che conserva una grande umanità. Ogni competizione è formata da un gruppo di corridori che per tre settimane devono soltanto pensare a correre, immersi in uno stress e una competizione dove a volte ci si aiuta per andare avanti. Il ciclismo è l’ultima della “chanson de geste”. Personalmente, quando lo seguo, mi pare di andare a fare visita a un vecchio malconcio e malvissuto. Forse la sua tristezza è proprio questa.

Una volta, parlando di Gianni Brera, lei ha scritto “Ha alfabetizzato il tifoso di calcio. Stufo di Rivera e Mazzola, parlava più di Leopardi e Manzoni”. Lei si è mai stufato del calcio?

Da un po’ di tempo a questa parte. Saranno sei o sette anni. Ho visto tanti calciatori che mi hanno emozionato, campioni straordinari. Oggi invece mi accorgo che ci si emoziona per la normalità. E si sta pure indebolendo la critica sportiva. Il risultato di una competizione viene spiegato in funzione dei personaggi più noti. È scomparso il criterio meritocratico delle cose. Spesso le partite sembrano più sfilate di parrucchieri, con tutte queste creste e acconciature che alimentano la visione divistica del calciatore, forse su spinta dei procuratori. Un tempo gli atleti erano più vicini alla gente e ai giornalisti. Oggi, se vuoi intervistare qualcuno, devi fare i conti con le società, con le loro autorizzazioni e i vari diritti e divieti. E il giornalismo a questo dovrebbe reagire, evitando di assecondare l’aspetto pubblicitario preteso a tutti i costi dalle società di calcio.

Cosa pensa di Benitez al Napoli?

È uno bravo, un ottimo allenatore, e vincente. All’Inter non l’avevano preso in simpatia, ma Napoli, come Liverpool, è una piazza molto calorosa, che saprà come accoglierlo. Bisogna vedere anche che campagna acquisti farà la società. L’unico problema è che a Napoli adesso ci si aspetta che lui migliori l’ultimo piazzamento. E dopo il secondo posto c’è solo il primo.

Ha scritto Cyril Vernon Connolly, “La letteratura consiste nell’arte di scrivere qualcosa che sarà letto due volte, il giornalismo in quella di scrivere ciò che deve essere compreso immediatamente”. Forse Gianni Mura sa fare entrambe le cose. La redazione di SpazioNapoli gli è grata per questa intervista.

Sebastiano Di Paolo, alias Elio Goka  

Articolo modificato 8 Giu 2013 - 01:44

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