Londra, l’Emirates, i Fucilieri: i primi in classifica di quello che è da anni il primo campionato d’Europa. Se non ti motiva tutto questo, che cosa mai riuscirà a motivarti? Questo, il tifoso. Ma la squadra? Che deve fare una squadra obiettivamente più debole, in un campo in cui gioca una volta nella vita, con gli occhi del mondo addosso?
Una squadra che deve supplire all’assenza del fuoriclasse, del centravanti che, come si dice, fa reparto da solo? Una squadra che ha le sue carenze, le sue amnesie tecniche, che non ha centrocampisti in grado di tenere palla e far salire il gioco? Una squadra in queste condizioni deve metterci cuore. Tanto cuore, tanto coraggio. Deve alimentare una rabbia agonistica nelle urla dei tifosi avversari, deve addentare la partita con fame, con assoluta determinazione. Così dovrebbe, almeno. Invece il tifoso motivato e il calciatore demotivato sono sprofondati insieme in un incubo: sapete, uno di quegli incubi in cui sei inerme, in cui non hai la forza di risalire dall’acqua profonda. Se dopo meno di un quarto d’ora perdi due a zero, se ogni singolo rimpallo, ogni contrasto si conclude a favore degli avversari, se non riesci a sviluppare alcuna forma di gioco, allora ti aspetti che ci si metta almeno il cuore. Che i nostri, tecnicamente inferiori, mostrino i denti e si rendano conto che non c’è nulla da difendere, se non l’onore della bandiera. Ti aspetti che si vada a testa bassa in avanti, che non ci faccia irridere in una rete di passaggi, che si vada a tirare in porta anche a rischio di prenderne un altro. La clamorosa inadeguatezza a questi livelli di alcuni calciatori, come il povero Britos le cui organiche carenze vengono impietosamente messe a nudo in Europa, si amplifica se non si profonde la necessaria rabbia agonistica; come purtroppo spesso accade, Hamsik dimentica la leadership nello spogliatoio e scompare; come ci si poteva aspettare, appena il cerchio d’azione supera i cinque metri di diametro Pandev viene sovrastato da qualunque difensore. Ci può stare perdere all’Emirates, ci mancherebbe; e la squadra di quarta fascia in casa di quella di prima dovrebbe sulla carta essere destinata a sicura sconfitta. Ma noi tifosi sappiamo che i nostri ragazzi non sono questi, non possono essere questi. E sappiamo che nulla è perduto, che abbiamo più punti di quanti ne avremmo se legittimamente avessimo pareggiato due volte; ma non ce ne voglia l’amato mister Benitez se diciamo che avremmo voluto vedere una squadra ben più determinata e molto meno molle, inconsapevole e rassegnata. Avremmo voluto almeno la lotta. Almeno il cuore.
Due annotazioni ancora verranno consentite al vecchio tifoso ferito. La prima: meglio essere stati mortificati con questa strana maglia addosso che con la nostra color di casa; il ricordo ne uscirà meno malconcio. La seconda: è morto Nino Musella, meraviglioso genietto del Napoli di Marchesi e Krol, che portò l’azzurro in nazionale under 21 facendo sognare una generazione di ragazzini. È morto solo, su una spiaggia ligure, davanti a un mare che non era il suo, stroncato da un infarto fulminante che gli ha spaccato il cuore azzurro, forte, nobile e non rassegnato. Si poteva chiedere un minuto di silenzio, o, se le procedure europee non lo permettono, almeno una fascia al braccio che ne ricordasse l’appartenenza. Si renda finalmente conto, presidente, che per fare la storia nuova non si deve, non si può perdere la memoria della vecchia. I tifosi amano, ma hanno anche molto amato. Ciao, Nino: ogni cuore azzurro stasera è in lutto, soprattutto per te.
Fonte: Maurizio De Giovanni per Il Mattino