A Napoli, come altrove, la violenza dei tifosi non riguarda soltanto il calcio. Del resto è quanto accade anche nelle altre tifoserie, pure all’estero, dove in ogni curva sono presenti gruppi ultrà legati a movimenti politici estremisti o alla malavita. Molti giornali, riviste, siti, attraverso le inchieste di giornalisti appartenenti a testate prestigiose, hanno computo molte indagini al riguardo, informando attraverso inchieste molto approfondite i dossier sul fenomeno più trascurato del mondo dello sport.
Potrebbe sembrare un paradosso, a dispetto dei numerosi provvedimenti legislativi adottati in Italia e all’estero per il contrasto alla violenza negli stadi, ma, nonostante tutto, pur considerando le sanzioni della FIFA, della UEFA e delle singole federazioni nazionali, la faccenda violenza resta un pianeta sconosciuto. E non lo è perché non si conoscono gli aspetti più profondi che riguardano le storie personali dei singoli appartenenti ai gruppi estremisti, non perché non si conosce la natura e la funzione di determinate frange del cosiddetto tifo organizzato, ma proprio perché è la stessa conoscenza dei fatti, delle provenienze, delle origini e delle funzioni a “vietare”, per intenderci, che impedisce di poter smascherare ed eliminare il problema.
La spiegazione non è sempre chiara, perché molto spesso anche gli stessi strumenti ideati dalla politica e dalle autorità restano adozioni incompiute di soluzioni soltanto apparenti. In Italia e nel mondo la valutazione dell’opinione pubblica viene spesso affidata alla circolazione di stereotipi, che tendono ad avere un effetto particolare, quello di consolidare osservazioni che sistematicamente fanno comodo e, in fondo, delimitano uno spazio chiuso di riflessione.
Fanno sì che il vero sia alterato e l’alterato diventi vero. Dietro queste alterazioni si muovono non visti i sistemi criminali, che spesso si avvantaggiano di coperture e di infiltrazioni, talvolta facendo diventare i luoghi delle tifoserie degli autentici avamposti della criminalità organizzata, in certi casi, e, in altri, delle frange politiche estremiste, di destra e di sinistra. Il tifo diventa così strumento di intimidazione alle società di calcio, scoramento per chi vorrebbe vivere in maniera sana lo stadio e, ancora una volta, strumento di repressione che sortisce effetti solo su chi non lo meriterebbe.
Peggio ancora quando sono le stesse società di calcio ad alimentare il fenomeno. In Europa si sono verificati casi nei quali erano gli stessi club, costretti o meno, a foraggiare i gruppi violenti, o erano gli stessi gruppi a determinare le sorti delle dinamiche dirigenziali, cacciando o accogliendo il presidente scomodo o quello più comodo.Del resto, un’altra considerazione va fatta. Il tifo nel calcio raccoglie gli “spostamenti di massa”, ha una funzione calamita, mediatica e reale. Ecco che le numerose e oscure contraddizioni intorno al fenomeno non solo aggravano la necessità di affrontarlo, ma sono anche occasione di strumentalizzazione, spesso rivolta a reggere quel vecchio e inquietante conflitto sociale della cosiddetta “guerra dei poveri”.
Dietro i fenomeni sociali di natura violenta c’è sempre una serenità razionale di aspetti che non emergono, ma restano nell’osservatorio utile a capire quello che deve sembrare giusto, quello che deve sembrare sbagliato e chi o cosa dovranno pagarne le conseguenze. Come ha scritto Josè Ortega y Gasset proprio ne La ribellione delle masse, “La violenza è la retorica della nostra epoca”.
Sebastiano Di Paolo, alias Elio Goka