E la sua storia non è quella di una “napoletana qualunque”.
Cuore, orgoglio, attaccamento alla maglia, determinazione, caparbietà, umiltà, spirito d’appartenenza: la sua storia è ricca di molto altro ancora ed è in netta e quasi imbarazzante antitesi con quelle di ordinaria ed ostile intolleranza, con le quali il calcio, così come la cronaca moderna, ci hanno più frequentemente abituato a rapportarci.
Pertanto, la sua storia costituisce un barlume di speranza che rende perseguibili e tangibili concetti quali l’integrazione e la tolleranza razziale.
Barlume di speranza che andrebbe alimentato ed annoverato come esempio.
Puntare i riflettori su storie come quella di Filippozzi, vuol dire sensibilizzare ed educare l’opinione pubblica, palesando la possibilità di lasciar concretamente comprendere che esiste un’alternativa perseguibile, tangibile, praticabile, auspicabile, da anteporre alle “tristi ed obsolete storie di ordinario razzismo”, perché queste ultime, sono in grado di indurci a provare sdegno e disappunto, ma risultano incapaci di “insegnarci un’alternativa” piuttosto che un epilogo ed una condotta diversi.
Roberta Filippozzi, nata a Bussolengo, comune distante appena 12 chilometri da Verona, ha scelto di cucirsi l’azzurro del Napoli sulla pelle.
Questa è la sua semplice, ma suggestiva storia.
La consapevole e coraggiosa scelta che l’ha portata a vestire per la terza stagione consecutiva la maglia del Napoli Calcio Femminile, la erge a temeraria e sicura giovane, ma già saggia donna, a dispetto dei suoi 21 anni, che sa quello che vuole ed è altrettanto capace di selezionare i valori sui quali improntare la propria caparbia anima e la sua identità, così come la direzione da imprimere alla sua vita.
La strada da lei scelta si chiama Napoli, nonostante il momento storico critico, delicato, nel quale imperversa la squadra di Carlino, a dispetto delle sue origini scaligere, noncurante di quelle fantomatiche “diversità” che dovrebbero imporle, in quanto donna del Nord, di prendere le distanze dall’incerta realtà meridionale.
Invece, Roberta rappresenta il più elementare e lampante esempio di come può essere facile eludere le suddette discriminazioni razziali, le suddette obsolete ed effimere discriminazioni razziali, per conferire spazio e senso agli aspetti sui quali vale realmente la pena di riversare sacrifici, emozioni, attenzione, sentimenti.
Roberta difende la sua Verona, allorquando si ritrova al cospetto di un viso meridionale che si incupisce nel momento in cui apprende la natura delle sue origini, ma, con la stessa convinta fermezza difende l’area napoletana in campo, Napoli ed i suoi abitanti, fuori dal campo, quando, con la medesima qualunquistica arroganza, qualche suo conterraneo indirizza frasi sprezzanti intolleranza verso il Sud.
Lo scorso sabato, “la battaglia nella battaglia” di Roberta Filippozzi ha trovato la sua massima e più espressiva esternazione, attraverso un pregevole gol realizzato su una punizione calciata da oltre 25 metri: il primo gol realizzato dalla veronese adottata da Napoli con la maglia azzurra, il primo in campionato tra le mura amiche del Collana, un gol utile ed indispensabile per consentire alla squadra di conseguire un’importantissima vittoria.
Sabato scorso ha segnato “la terrona di Verona”.
Questo è il soprannome con il quale le sue compagne hanno ribattezzato quell’ibrido di ideologie ed idiomi, così avulsa dall’estremismo che, talvolta, si palesa dalle sue parti, così distante dall’idiozia che vige in taluni napoletani che, probabilmente, mai avrebbero saputo integrarsi tanto brillantemente, come, con estrema e naturale disinvoltura, è stata saggiamente capace di fare lei.
L’unica “straniera” rimasta a supportare la squadra azzurra, giacché la società ha scelto di puntare tutto su un gruppo interamente composto da giovani e campane.
L’unica eccezione che conferma la regola è lei: “la terrona di Verona”.
Il suo forte e sentito attaccamento alla maglia ed al progetto Napoli, così come ai valori di cui quella maglia è pregna e della quale si fa portatrice, appare sfrontatamente tangibile ed evidente osservandola mentre gioca, in difesa della sua squadra, della sua nuova terra.
In maniera ancor più eloquente traspariva dai suoi occhi, colmi di emozionata gioia, così come dal legittimo e fragoroso sorriso, sincero ed orgoglioso, che a sfoggiato a fine partita, sabato scorso, quando, con il cordiale garbo che la contraddistingue, si è presentata al cospetto dei giornalisti.
Stringeva con fierezza gli scarpini che ha calzato durante la gara, quelli dei quali si è avvalsa per siglare il suo primo gol in azzurro, nonché “regalo speciale” di Maria Caramia e Pasquale Policano.
Orgoglio, emozione, amore, gioia, ma sopratutto un’importante e ben più ampia vittoria.
Questo è quanto era intriso in quel mirabile gol di Filippozzi.
Il destino, sovente, si diverte a delineare percorsi beffardi e maldestri, questo è noto e comprovato.
Ed, infatti, il prossimo sabato, “il Napoli delle napoletane e di Filippozzi”, giocherà in trasferta proprio a Verona, contro il Valpolicella.
Quando ho chiesto a Filippozzi se per lei si giocherà in casa oppure in trasferta, la sua replica è stata diretta, avulsa da indugi e titubanza: “Per me si gioca in trasferta”.
Ed ha spiegato che lei è anche più mal vista, rispetto ai “napoletani di fatto”, dai suoi stessi conterranei, dopo il matrimonio calcistico e di vita attuato, poiché non le perdonano di aver “sposato” Napoli.
Filippozzi sbaglia a “sentirsi una di noi”, perché “è una di noi”.
Ed anzi, dimostra un assai più marcato e sincero spirito di appartenenza, rispetto a chi ripudia questa terra, prendendone le distanze, perché “si vergogna” di essere napoletano.
E Napoli deve, allo stesso modo, “essere” e non “sentirsi” orgogliosa di annoverare il nome di Roberta Filippozzi nel suo stato di famiglia.
Luciana Esposito
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Articolo modificato 8 Ott 2013 - 22:49