Cosa ancora non si è detto sul dualismo tra Juventus e Napoli? Probabilmente nulla che non si sappia già, a braccetto con le annate calcistiche a partire dagli anni ’30 fino allo scorso campionato, attraverso le vicende di due squadre che prendono le sembianze di due popoli nettamente diversi. Le vicende italiche hanno voluto che i piemontesi, o sabaudi che dir si voglia, abbiano assorbito negli anni la nomea di “Signora“, cioè una squadra che rappresenta l’alta borghesia, la parte nobile del popolo, un po’ il simbolo del potere del nord che va a discapito della plebe meno abbietta e nettamente medio-borghese che invece rappresenta il Napoli. A decidere queste vesti è stata, ovviamente, la storia attraverso il racconto di quasi un secolo di calcio, con protagonisti che hanno ceduto lo scettro ad altri, da Boniperti a Jeppson, da Altafini a Sivori, da Zoff a Savoldi, da Cabrini a Bruscolotti, da Platini a Maradona, da Del Piero a Cavani, sempre con la stessa costante, e cioè quell’acerrima rivalità che non si chiama odio per ragioni di temperamento, ma che ogni qual volta fa sentire la propria presenza tastando il polso dei rispettivi ambienti.
Inutile ricordare che la sorte è stata benevola con la “Signora Bianconera” pluriscudettata e blasonata grazie anche al potere dell’alta dirigenza, storicamente rappresentata per anni dalla beneamata Fiat, e cioè il simbolo dell’Italia che produce e guadagna, con la famiglia Agnelli fautrice di un vero e proprio “stile Juve” che, dobbiamo riconoscere, ha insegnato un modo nuovo di fare calcio e di gestire una società, nonostante i successori, i giovani rampanti appartenenti al ceppo, non abbiano mantenute le stesse radici, mortificandone in alcuni frangenti l’operato di anni di sacrifici. Dall’altra parte una società altalenante come il Napoli calcio, con Ascarelli e Lauro che hanno tracciato le prime basi per cercare di combattere lo strapotere del nord, attraverso poche affermazioni, rare conferme che il distacco si stesse realmente affievolendo, riuscendovi solo dopo l’ingresso dell‘ingegnere Ferlaino, forse fortunato, sicuramente abile ad accaparrarsi una società che avrebbe, da lì a poco, conquistato qualche soddisfazione che oggi si cerca disperatamente di riconquistare.
Le tappe di un lungo cammino che ha intrecciato le strade di entrambi le compagini sono tante, le battaglie in campo e le ansie sulle tribune sarebbero tante e troppe per discuterne brevemente, basti pensare che la storia calcistica azzurra è stata mal battezzata da un 8-0 nel lontano 1927, a pochi mesi dalla nascita del club napoletano, avvenimento che fece adottare il simbolo del “ciuccio” come mascotte della squadra campana, visto che l’animale è solito arrancare ma resistere nonostante le batoste e gli sforzi immani. E poi la prima vittoria a Torino nel ’30 (1-2 ) bissata solo dopo diciott’anni (1-3 nel ’48, a Boniperti rispose Barbieri con una tripletta) fino agli anni ’60 dove gli arrivi di Sivori in maglia azzurra, proveniente dalla Juve, e Zoff, dal Napoli ai bianconeri acuì ancor di più il concetto di inimicizia tra due popoli, tra due culture, tra due modi di vivere il calcio e di sostenere i propri colori, ma anche di assorbire cocenti delusioni o di festeggiare le grandi vittorie.
Come dimenticare Altafini, “core n’grato” per gli azzurri, quando, nel ’75 con un suo gol mette gli azzurri fuori causa per lo scudetto in favore proprio dei bianconeri, dopo aver militato per diversi anni con la maglia dei partenopei, che si sentirono traditi da colui al quale avevano dato il cuore. La storia si ripete nell’80 quando gli azzurri sfiorano l’impresa tricolore, fermati sul più bello da un 1-1 dalla compagine torinese. Gli anni più ricchi di soddisfazione per il Napoli arrivano con l’avvento di Maradona, che nell’86 riesce a far imporre la sua squadra al Comunale di Torino per 1-3, con le reti di Ferrario, Giordano e Volpecina, e, due anni più tardi, con la più roboante vittoria per 3-5, con tripletta di uno strepitoso Careca e reti di Renica e Carnevale. Come dimenticare i migliaia di napoletani sulle tribune esultare come forsennati, molti dei quali abitanti di Torino e lavoratori proprio di quella Fiat proprietaria della Juventus, la “squadra dei padroni” battuta dai gregari azzurri, con il piccolo folletto Maradona, Masaniello in quel di Torino. Salto epocale di quasi venticinque anni per rivedere una strepitosa vittoria, 2-3 nel 2009, in rimonta dal 2-0, grazie alle reti di Datolo e alla doppietta di Hamsik, la gara del “seppelliteci qui“, uno dei più bei “Juve-Napoli” degli ultimi anni, senza considerare la vittoria in finale di Coppa Italia, giocata all’Olimpico di Roma.
Nel mezzo di queste mitiche gare sopracitate, tante altre sfide in cui il Napoli ha spesso capitolato, bruscamente, di misura, per errori individuali o per sviste arbitrali, ma vuoi mettere il fascino dello sfizio di violare il tempio di una grande del calcio italiano? Non ci sono paragoni, anche se le volte in cui è accaduto si possono contare sulle dita delle mani, non c’è successo che tenga quando si parla di battere la Juventus, ancor più quando capita di “andarle a suonare di santa ragione” direttamente a domicilio.