Zuniga: “Tornerò tra un mese, pronto per il big match contro l’Inter. Voglio vincere con il Napoli, il mio futuro è in azzurro”

Il conto torna: meno trenta, o forse venticinque, con la clessidra che scivola lentamente verso l’ignoto. L’Arsenal, poi l’Inter: le partite che contano, che trascinano verso il futuro, che racchiudono il passato, che rappresentano Zuniga, sospeso tra le aspirazioni e la gratitudine, in quel conflitto intestino ch’esalta, in quel tormento che sa di divenire estasi, perché ci sono sfide a cui è impossibile rinunciare. «Ce la sto mettendo tutta». E intorno c’è il silenzio, la routine d’una palestra, i pensieri sparsi di chi ha il vuoto da contemplare e le scadenze da inseguire, immaginando semplicemente ciò che suggerisce il calendario: l’Arsenal, l’Inter di Mazzarri, bisogna fare in fretta, dimenticare il menisco, superare le turbolenze d’un mese insopportabile, resistere e poi insistere, accarezzando ciò ch’è stato e quel che potrà essere. «Siamo una grande squadra e peccato questi infortuni: prima Maggio, poi io e poi anche Mesto. Una maledizione. Ma abbiamo un organico ampio e una società che ha creato un gran gruppo». La corsa, diamine, continua: avanti e indietro, lasciandosi andare sulla fascia – destra o sinistra o che sia – consegnando alla fantasia quel goliardico tip-tap divenuto l’essenza d’una nostalgia d’un san Paolo in attesa di Zuniga. L’Arsenal e poi l’Inter, le scadenze da afferrare al volo, freccia azzurra da scagliare al vento, consentendogli di portar via pure le residue scorie (eventualmente ve ne fossero) d’una estate resa arroventata dal falò di un amore che pareva finito e che invece, ma guarda po’, stava risorgendo dalle proprie ceneri. L’Araba Fenice o Camilo Zuniga, che differenza c’è…

Ma Zuniga quando torna?
«Penso di essere pronto entro un mese. Il programma di recupero procede bene. Non voglio accelerare, ma ho fretta: ho perso già troppe gare».
E altre ne salterà: però tra un mese…
«Si entrerà nella fase finale del periodo caldo: arriverà l’Arsenal al San Paolo, l’ultima del girone di Champions, e vorrei esserci. Sperando che magari la qualificazione sia stata conquistata in anticipo».
E il 15 dicembre c’è una delle sue partite.
«Arriva l’Inter e io a Mazzarri posso solo dire grazie: perché mi ha cambiato, credendoci quasi più di me. Io neanche ci pensavo che un giorno sarei diventato un esterno di sinistra. Mi ha martellato, mi ha trattato come si fa con i bambini alla scuola calcio: vieni qua, ci si mette così, questa è la diagonale, calcia…».
E di lei disse: ora è tra i più forti in circolazione.
«Un giorno ero sfinito, in confusione totale: lo pregai, “mister lasci stare, non ci riesco, non ce la faccio”. Erano i suoi primi mesi, il San Paolo mi fischiava, non mi ero presentato bene, non piacevo. Ma lui decise per me: si fa in questo modo e fino a quando ormai era buio, allenamenti sulla tecnica, sulla postura».
Torniamo all’estate: ma come le venne, il 29 luglio, di mettersi a saltare al coro dello stadio?
«Si metta lei nei miei panni. Era la presentazione della squadra, si erano dette e scritte tante cose, vivevo un momento difficile e il cervello frullava: io dovevo rispetto alla società, con la quale però non si riusciva a trovare un’intesa. Ne dovevo alla gente, ne dovevo anche a me. Sentivo l’altoparlante che ci chiamava uno ad uno, venne fischiato Gargano – fiuuuuu – ma quando entrai io – fiuuuuu, fiuuuuu – non smettevano. E ogni volta che toccavo il pallone».
Un raptus, dunque.
«Non pensavo di giocare, dopo quell’accoglienza. Ma Benitez scelse bene: scaldati, vai dentro. Dissi a Insigne dammi il pallone. Ero bello carico. Ricordo tutto, feci pure un gran gol, mi sentii liberato, potevo buttare fuori tutto quello che avevo accumulato. E mi venne la danza. Io ho sempre saputo che quei fischi erano d’amore, un modo per contestare l’eventuale mio addio».
Praticamente scelse Napoli.
«Ma io qua ci sono stato sempre bene, mia figlia è nata qui, e io con questa maglia sono cresciuto e sono diventato qualcuno, che ha avuto mercato per un’estate intera, che è stato accostato a club di una importanza enorme. Ma lo è anche il Napoli. E lo è sempre di più».
Una domanda alla quale non si può sottrarre: Barcellona, Real, sono tentazioni che restano?
«Io ho rinnovato per il Napoli e non sarebbe giusto ora sbilanciarsi su ipotesi che non esistono. Però sono coerente e so che nel calcio la cessione è dietro l’angolo: potrebbe accadere o anche non succedere, ma è impossibile pensare di prevedere il futuro. E onestamente aggiungo anche: Barcellona e Real Madrid sono il sogno di qualsiasi calciatore».
I suoi, da bambino, a Medellin, quali erano?
«Di giocare nell’Atletico Nacional. Punto. E invece sono arrivato in Europa, nel Napoli, si è parlato di me per mesi. Sono fiero di quello che ho fatto, ma non è finita e lo dico in umiltà, perché so che conviene tenere i piedi per terra. Ma questa è una stagione piena».
Il Napoli e la Colombia: andiamo per gradi, la Champions o lo scudetto?
«Tutti e due… Nelle ultime quattro stagioni, con l’arrivo di Mazzarri, sono stati fatti enormi progressi; con l’avvento di Benitez, abbiamo acquisito una dimensione internazionale; con l’acquisto di Reina, di Higuain, di Albiol, di Callejon, abbiamo in squadra gente che sa cosa significhi vincere nella Liga, nel Mondiale, all’Europeo e come sopportare le tensioni dell’alta classifica. Ci hanno dato certezze, perché loro hanno nel sangue la capacità di imporsi. Sarà dura batterci, anche se è buffo dirlo ora che siamo reduci da una sconfitta. Ma abbiamo perso contro la Juve, i più forti del campionato: due scudetti non li hanno placati, hanno ancora quella sana cattiveria agonistica».
Un dettaglio di Benitez che l’ha stupita.
«Ha fame , nonostante i suoi vari successi. E noi abbiamo il suo stesso appetito, perché in tanti di noi non sono ancora riusciti a conquistare quello che volevano. Non sarà certo semplice imporsi, ma bisogna fare attenzione al Napoli. Noi lavoriamo per questo. Però ci sono anche l’Inter, la Roma e soprattutto la Fiorentina: mi piace molto come gioca, mi diverte interpreta il calcio come me, in allegria. Un tunnel mi piace più d’una copertura difensiva. Io sono un uomo fortunato, faccio il lavoro che voglio: e scusatemi se lo chiamo lavoro».
A giugno andrete in Brasile: chi siete voi?
«La possibile sorpresa: ne abbiamo i mezzi, la forza. Un gruppo di ragazzi venuti su dall’Under 20, giochiamo assieme da otto anni. Una forza interiore e tanta qualità di calciatori che nel proprio club fanno la differenza. Il Mondiale richiede caratteristiche speciali che noi pensiamo di possedere. Poi i favoriti sono altri: la Spagna è ancora avanti agli altri e poco importa che il Brasile giochi in casa. Io penso che i migliori siano sempre i campioni in carica. Poi dietro c’è anche l’Argentina con le solite. Ma guardatevi dalla Colombia».
La Colombia, Medellin…
«Il cartello, Pablo Escobar, la droga. E’ la prima immagine che si ha avuto sempre di noi: ma il tempo sta volando via, il momento più difficile è stato superato. Il Paese è bellissimo. E chi viene in Colombia poi fatica a staccarsene o comunque ci torna».
Vero che divenne esterno con una bugia?
«Certo che sì. Ero mezzala, da ragazzo: maglia numero dieci. Mi veniva bene. Però un giorno mancò il titolare della Nazionale giovanile e il Ct chiamò il mio allenatore per chiedergli un cambio. “Ti mando Zuniga”, gli disse. Poi telefonò a me: “Guarda che vai lì, serve un fluidificante, non dire che giochi a centrocampo”. Mister, se vuole dico pure che sono portiere. In allenamento volavo… E sono arrivato sin qua».
Senza Lavezzi non è la stessa cosa.
«Eravamo sempre assieme, sempre. Siamo amici e ci sentiamo, tante volte. Un ragazzo straordinario, che me ne ha combinate di tutti i colori. Ogni giorno c’era uno scherzo da evitare: e adesso, quelli che lui faceva a me io li rifilo ad Armero».
Lo scherzo che non si può rivelare.
«Ho preso casa a Posillipo, ci vivo benissimo, panorama fantastico: sento l’affetto della gente, il loro calore. Un regalo è a loro dovuto. Meglio non fidarsi del Napoli».

FONTE Corriere dello Sport

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