Quando uscì “Io speriamo che me la cavo” ero appena un ragazzino. Non è che sia poi così facile andare oltre, soprattutto senza dimenticare di essere stati nello stadio precedente che l’età successiva condanna allo stato di immaturità, di scoglio superato e messo da parte come un vecchio ricordo. Allora sì, che si diventa vecchi, in anticipo, scongiurando a tutta forza, allevandosi dentro il dissolvimento, invece che tenersi tutto.
Marcello D’Orta non c’è più, l’autore dell’Io speriamo che me la cavo, divenuto il manifesto ironico e scanzonato di una civiltà in miniatura, è andato via senza troppi clamori, in punta di piedi, dopo essere stato escluso a sufficienza, da quella morale intellettuale che rifiuta la spontaneità del dire perché crede che i grandi significati passino soltanto per il detto a lungo termine, l’invecchiato, appunto. Non è andato giù a tutti, il Marcello D’Orta che per qualcuno ha marciato sull’imperizia linguistica e sul genio involontario del suo studentato “sgarrupato”, che poi tanto sgarrupato non era e non è, diciamocela tutta. Altro che disarticolazioni e scompostezze. Tutta la schiera degli scrittori italiani contemporanei, soprattutto i più giovani, anche quelli di maggior successo, non sarebbe in grado di pareggiare l’efficacia e la lucidità di un bambino cresciuto ad Arzano, a Casavatore, o in una qualsiasi frazione, cittadina o metropoli del sud a sud.
Marcello D’Orta era maestro vecchia maniera per certe cose, nuova maniera per altre. Predicava il maestro unico e voleva una scuola che non fosse l’indottrinamento collettivo, ma la salvaguardia dell’individuo “in fasce”, pure e soprattutto della sua appartenenza scanzonata e sgrammaticata, dei dialetti, delle cadenze, degli accidenti in chiave sottoforma di bestemmia e imprecazione. Del resto i soli acuti della vita ai quali diamo ascolto. Non ha inventato nulla Marcello D’Orta, però mi ricordo che quando ho letto Io speriamo che me la cavo, pure con l’ingenuità di un ragazzino che piglia tutto per buono, senza badare alla malignata di turno se una cosa sia stata fatta o meno in buona fede, mi figurai in testa un presepe di occasioni, di figuri arditi e derelitti, distribuiti alla bell’e meglio in un immaginario che è la fase reale perenne di un mondo confinato dentro un lume fioco di modernità. Intorno sciamano ancora creature brutali e insetti velenosi, ma che non turbano l’unico prodigio che riesce a sopravvivere. Quel genio involontario che vive di se stesso e non di sovrastrutture, quel modello umano nato da se stesso che non invade ma resiste, nella sua casba di sentieri inesplorati, di vicoli e di condotti verso un inferno in attesa di promozione a paradiso.
Oggi tutti parlano di rifiuti, di inquinamento e di “Terra dei fuochi”. Marcello D’Orta, se con malizia o meno non possiamo saperlo, ne parlò anni fa, col merito di averlo fatto sulla sua pelle, perché nella sua pelle aveva sperimentato il retrogusto amaro della malattia e del suo enigma mortale. E di sicuro pure lui aveva fatto tardi, già allora, quando ancora prima sarebbe stato necessario gridarlo per tempo questo strascicato esseoesse che affonda il suo segnale nei decenni addietro.
In fondo Marcello D’Orta di danni non ne ha fatti, e vi riflettano i suoi detrattori che lo hanno sempre relegato ai margini delle espressioni della scrittura. In fondo la sua voce è stata il coro di tanti ragazzini schierati a guardia di una contro retorica senza occasioni, che di tanto in tanto viene fuori a ricordarci che pure da sani abbiamo affianco una malattia che ci riguarda, che non fa sconti, e che col malcapitato di turno, se capitiamo nell’avamposto giusto, dà una mezza spintonata al nostro io e con aria bonaria gli dà del tu.
Charles Baudelaire ha scritto che “il bambino non può far da confidente ai dolori solitari”, ma se riesce a raccontarceli, come a una festa di adulti, non prendiamocela a male se qualcuno chiede che per un momento si faccia silenzio per ascoltarlo.
Sebastiano Di Paolo, Elio Goka