Dortmund e Napoli, due città accomunate da una fortissima passione per il calcio.
Perché, come ha detto un tassista indonesiano incontrato per le vie tedesche: “Gli abitanti di Dortmund il calcio lo hanno nelle ossa”.
Per i napoletani la sede metafisica di questo sport risiede in qualcosa di meno rigido e più fluido, così come il magma sotterraneo di una città vulcanica, così come il sangue che collega subito a chiari riferimenti con il proprio santo protettore.
A Dortmund nelle ossa, a Napoli nel sangue.
Differenze metaforiche di poco conto, a prima impressione almeno.
Perché basta paragonare l’atmosfera del Signal Iduna Park a quella del San Paolo per capire che ci si trova dinanzi a due teatri diversi, ma anche diversi spettatori.
Difficile immaginare di uscirne vincitori quando si è costretti a combattere anche contro un dodicesimo uomo in campo così forte, così unito, come quello composto dal “wall” giallonero.
La presunzione di possedere quelli tra i migliori tifosi d’Europa crolla inesorabilmente dinanzi a un confronto europeo di tale caratura.
Mai visto uno spettacolo simile al San Paolo, mai visto un coordinamento totale della tifoseria come quello del Dortmund, mai visto un sostegno così prepotente verso la propria squadra del cuore.
Eppure “maciniamo chilometri e superiamo gli ostacoli”. Ma in casa ci mettiamo le pantofole e riposiamo, lasciando fare a ognuno della nostra famiglia quello che ci pare. E così le curve cantano separatamente, distinti e tribuna partecipano a fasi alterne solo per qualche coro avverso i nemici calcistici più odiati.
A dire la verità, anche l’ultima e residua forma di aggregazione totale del tifo, quel “Oi vita mia” violentato su altri stadi e da altri sostenitori in occasione di vittorie contro il Napoli, è stato sgretolato dalla volontà di De Laurentiis di modernizzare qualcosa che, con alto tasso di probabilità, sarebbe stato meglio lasciare così come era, figlio della tradizione e della cultura partenopea. Così anche l’inno prepartita o al termine di una vittoria, è diventato un’altra occasione di frammentazione: da una parte c’è chi prova a cantarlo perdendosi dopo la prima strofa, dall’altra chi lo fischia rigettandolo.
Le cheerleaders poi, americanata non gradita a tutti e anche per questo, superata la curiosità iniziale, finita tra l’indifferenza generale troppo velocemente, fatto molto significativo.
Eppure i tifosi di Dortmund sono così simili a quelli napoletani.
Sempre il tassista di prima ci racconta: “Gli abitanti lavorano per una settimana intera senza sosta, speso in fabbriche; la partita del Dortmund rappresenta il loro unico modo di aggregazione sociale, di sentirsi parte integrante di un unico sistema al di là delle gerarchie lavorative dove il datore di lavoro si siede al fianco dell’operaio e canta come lui”.
Il ritmo è lo stesso, è forse la fase di “non lavoro” a generare differenze sul tifo napoletano? Il fatto di una frammentazione sociale troppo evidente tra i “pochi fortunati” che lavorano e gli altri che non lo fanno? E’ un’indagine antropologica troppo difficile da poter espletare.
Resta il fatto che troppo spesso ci si lamenta di uno stadio non all’altezza, e su questo non c’è il minimo dubbio.
Ma bisogna lavorare affinché lo siano anche gli spettatori perché il vero problema che si rischia è di avere uno stadio vuoto, dove “vuoto” non deve significare per forza una mancanza numerica ma anche di unità di intenti, di sane energie.
Affinché il dodicesimo uomo in campo si muova in un senso solo e non soltanto attraverso un generarsi di movimenti incondizionati e incontrollabili. Per essere più forte, per cantare di più, per vincere di più.