Lorenzo Insigne, uno degli ultimi principi del dribbling rimasti in Italia

Il dribbling è prigioniero. L’hanno deportato nella Siberia dei luoghi comuni, nei gulag delle lavagne blindate. Lo sconsigliano. Lo indicano e lo spacciano come un cattivo esempio. Ogni tanto ne liberano uno. Ogni tanto. Non mi basta. Prendete la Juventus: al netto del modulo, il salto di qualità si nasconde sulle ali (nel lessico moderno, esterni). Scusate, ma non penserete mica che, con un Franck Ribéry o un Arjen Robben in rosa, Antonio Conte si ostinerebbe a masticare il 3-5-2?
Dribblare ha assunto un significato che, metaforicamente, ne rovescia la radice e ne mutila lo spirito: io dribblo un esame, cioè lo evito. Niente di più falso. Il dribbling incarna la scintilla del football, così come lo hanno insegnato e diffuso i maestri inglesi. Significa puntare l’avversario, e non già evitarlo. L’evoluzione del calcio lo ha trasformato in una roulette russa. In passato, si cresceva nel suo culto: oggi, nel suo rigetto. Precedenza al gioco di squadra, come se lo «scarto» e la «finta» ne fossero ostacoli, confini, zavorre.
Dalla marcatura a uomo, che contribuì a esaltarne l’importanza, alla zona, con il suo corredo di pressing, raddoppi e falli tattici, dribblatore è diventato sinonimo di specialista in via di estinzione. Per questo tiro la volata ad Alessio Cerci e mi tengo stretti i coriandoli di Antonio Cassano. Alessandro Diamanti è un altro della tribù, al pari dell’ultimissimo Ricky Alvarez, capace di affrancarsi dal bandolero stanco che sbarcò all’Inter. Usa il sinistro come una sciabola e non più come una stampella.

Juan Cuadrado fulmina le scorte con un dribbling secco, esplosivo. La Fiorentina gli deve accelerate impressionanti. Rudi Garcia ha voluto a tutti i costi Gervinho. Lo ebbe nel Lilla: insieme, vinsero uno scudetto e una coppa di Francia. All’Arsenal, fece la diffidenza. Alla Roma, sta facendo la differenza. Ha bisogno di spazio, cosa che non sempre gli offrono, ma appena scorge le pale di un mulino parte in quarta, don Chisciotte affamato e felice. Sono gli ultimi dei Mohicani. Sebastian Giovinco, Carlitos Tevez, Lorenzo Insigne, Juan Manuel Iturbe, lo stesso Antonio Candreva nella versione post-moderna. Stephan El Shaarawy dribblava «a rientrare», prima di venir risucchiato da quel pozzo grigio dentro il quale, a 20 anni, può capitare di finire. Francesco Totti vi ricorre proprio quando non ne può fare a meno. E’ uno dei pochi a poterselo permettere. Da Sassuolo, incalza Domenico Berardi, classe 1994. Clienti abbastanza fissi sono, a Udine, Totò Di Natale e Luis Muriel.

Adesso vi faccio ridere: qualcuno ricorderà, alla Juventus, il girone d’andata di Milos Krasic. Stagione 2010-2011: cose folli. D’improvviso, scomparve. Letteralmente. Gareth Bale incendiò il Tottenham con i fiammiferi delle sue volate e dei suoi slalom. Il Real l’ha pagato cento milioni di euro. Appena arrivato a Madrid, qualcuno scrisse che era un doppione di Cristiano. Peggio per lui. Non tutelo il dribbling fine a se stesso, narcisista e populista. Tifo per il dribbling verticale, spacca-equilibrio. Ebbene sì, sono romantico: mi piacerebbe che nei vivai si tornasse a insegnarlo, a praticarlo.

FONTE Gazzetta dello Sport

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