Guidare un Paese significa capirne intimamente le sfumature, aiutare a farle convergere in un’unica tonalità pur mantenendo la sfumatura, saper parlare con ognuna di esse e riuscire a rappresentarle davanti al mondo intero. Essere il leader di un Paese significa essere riconosciuto come tale da tutte le sfumature che rappresenti. Essere un simbolo intoccabile per il mondo intero è praticamente quasi impossibile, a meno che non ti chiami Nelson Mandela, Madiba per il suo clan di appartenenza dell’etnia Xhosa, e a cui abbiamo cominciato ad appartenere un po’ tutti noi.
Mandela ha speso la sua vita nel migliore dei modi possibili, compresi, paradossalmente, i 27 anni di prigionia: per la sua terra, per la sua gente, per gli ideali di giustizia e uguaglianza. Non ideali scritti, ma messi in pratica. Il nome attribuitogli alla nascita è stato “Rolihlahla”, che significa “colui che provoca guai”. Ironia della sorte, aveva un nome bugiardo. A meno che per guai non s’intendano quelli subìti da chi non voleva le sue parole di ribellione. Un destino che l’ha voluto come protagonista del movimento anti-apartheid. In tutti i casi, tutti sappiamo cosa significa perdere uno dei pochi esempi umani ancora viventi, anche se a 95 anni e malato da tempo. Perciò, questo non vuole essere l’ennesimo articolo dedicato a chi se n’è andato con la coscienza di un grande uomo, ma la mia passione per lo sport mi ha fatto tornare in mente un paio di avvenimenti che riguardano Madiba e la sua forza di influenzare positivamente qualsiasi cosa. Anche lo sport. Anche un campionato mondiale di rugby. E anche la consegna di un Pallone d’oro.
Era il 1995, in Sudafrica si disputava la Coppa del Mondo di rugby e Mandela era il Presidente, il primo dopo la sconfitta della segregazione razziale. La squadra nazionale è quella degli Sprongboks. Una squadra di bianchi detestata dai neri. La fine dell’apartheid non ha automaticamente cancellato gli anni di sopraffazione e di umiliazioni subìte dai neri del Sudafrica, e anni di odio razziale e politiche in questo senso, portavano ancora conseguenze sulla popolazione. Per cui, nonostante la riammissione, dopo decenni di boicottaggio, nelle gare internazionali, l’attenzione posta sulla nazionale sudafricana non era sportiva. O, almeno, non solo. Diventava, per forza di cose, anche un fatto politico. E qui, interviene l’uomo, il leader, il simbolo. Mandela vuole a tutti i costi la partecipazione degli afrikaner, perché vede, in una loro insperata vittoria, la possibilità di unificare l’orgoglio nazionale. Ci riuscì, chiaramente. Il Sudafrica vinse la Coppa del Mondo battendo gli All Blacks in finale. Fu proprio Mandela a dichiarare qualche anno dopo che: “Fu sotto la leadership ispiratoria di François Pienaar che il rugby divenne l’orgoglio dell’intera nazione. François ha unito la nazione.” Insomma, un leader non si prende il merito, ma gli viene comunque riconosciuto grazie alla sua forza simbolica. Alla vicenda, recentemente, è stato dedicato un film: “Invictus”. Il titolo fa riferimento ad una delle poesie che ha accompagnato Madiba negli anni di prigione. Recitava così:
“Dal profondo della notte che mi avvolge, nera come un pozzo da un polo all’altro, ringrazio qualunque dio esista per la mia anima invincibile.
Nella feroce morsa delle circostanze non ho arretrato né gridato. Sotto i colpi d’ascia della sorte il mio capo è sanguinante, ma non chino.
Oltre questo luogo d’ira e lacrime incombe il solo orrore delle ombre, e ancora la minaccia degli anni mi trova e mi troverà senza paura.
Non importa quanto stretto sia il passaggio, quanto piena di castighi la vita, io sono il padrone del mio destino: Io sono il capitano della mia anima.”
E parlando di “mai vinti”, o quasi mai, arriviamo al secondo flash sportivo che mi è venuto in mente pensando a come Mandela sia riuscito ad ispirare e a coinvolgere persone e personaggi a tutti i livelli. Parlo, ovviamente, di Ruud Gullit e quel Pallone d’Oro, ricevuto nel 1987 e dedicato a Nelson Mandela che in quegli anni scontava la sua ingiusta detenzione. Per la prima volta nel calcio italiano un giocatore strumentalizzava, in un contesto internazionale, il suo nome per una causa dichiaratamente politica. Qualche anno dopo, l’ex giocatore rossonero incontrò il leader sudafricano e regalandogli una copia del Pallone d’Oro, disse: “Un uomo simbolo della lotta per i diritti civili e contro il razzismo che ha dato una lezione che tutti gli uomini del mondo hanno il dovere di tramandare”.
Adesso assistiamo a gare europee in cui deve essere ancora messo in bella vista il motto “No to Racism” e stiamo ancora a dover chiudere le curve per discriminazione territoriale all’interno dello stesso territorio. Evidentemente, siamo bravi a riconoscere i buoni insegnamenti, molto meno bravi a seguirli e tramandarli.
Articolo modificato 7 Dic 2013 - 01:53