Il trasferimento di Jorginho dal Verona al Napoli racconta il nostro calcio più e meglio di un dotto saggio. Era il 1984 quando un altro Verona, il Verona di Osvaldo Bagnoli, cominciò l’arrampicata verso uno storico scudetto. La serie A contemplava sedici squadre, con tre retrocessioni (presidente Beretta, ripeto: tre) e la «miseria» di due stranieri tesserabili; gli arbitri venivano designati per sorteggio (non integrale, però); la vittoria valeva due punti. Trent’anni orsono. Era il Verona del vulcanico Ferdinando Chiampan, finito poi in carcere per bancarotta fraudolenta, e del laborioso Celestino Guidotti. L’Hellas di quello scorcio fu costruita pezzo su pezzo da Emiliano Mascetti. Bagnoli la prese in serie B, nel 1981, la portò in A, in Europa, a due finali di Coppa Italia, al titolo e la riconsegnò in B nel 1990. Andrea Mandorlini è arrivato nel 2010. Il Verona vivacchiava addirittura nella prima divisione della Lega Pro, la serie C-1 di una volta. Jorginho ne ha incarnato lo spirito euclideo e salgariano: classe 1991, la prolunga di Antonio Di Gennaro, tanto per saldare i rimpianti del passato alle esigenze del futuro.
Ecco: «quel» Verona aggiungeva in estate; «questo» sottrae in inverno. Scritto di Jorginho, occhio al ventenne Juan Manuel Iturbe, un paraguagio naturalizzato argentino dal dribbling ficcante e il sinistro esplosivo. Il cartellino appartiene al Porto. Non sono pochi i club che gli ronzano attorno. Se non ora, quando? Semplice: a luglio. Il Verona di Jorginho, Iturbe e Luca Toni, l’usato sicuro che avrebbe commosso persino l’Osvaldo della Bovisa, è stato la sorpresa del girone d’andata. Divide il quinto posto con l’Inter, ha raccolto 32 punti, sette in più di quel Milan dal quale è stato sconfitto, di misura, domenica sera a San Siro. Sbircia l’Europa League. Jorginho non è un fuoriclasse – non ancora, almeno – ma credo che la sua partenza costituisca una ferita, un messaggio. Nel secolo scorso, le province erano laboratori creativi, dalla Salernitana di Gipo Viani al Padova di Nereo Rocco, su su fino agli eccessi di Zemanlandia e all’officina parmigiana di Arrigo Sacchi, così «intensa» da anticipare la rivoluzione del Milan. Oggi, sono colonie.
Hans-Peter Briegel e Preben Larsen-Elkjaer furono le rotelle che, ultime in ordine di tempo ma non certo d’importanza, raffinarono i meccanismi di Bagnoli, allenatore italianista tra i più pratici e flessibili. L’anno prima, la Juventus aveva sganciato Giuseppe «Nanu» Galderisi, il bracconiere che mancava. A parlare di ceto medio decaduto e di rose più umane, rispetto agli sterminati harem della modernità, si rischia di cadere nel patetico. Il Verona del miracolo domò l’impossibile. Quarto, sesto, primo, decimo, quarto, ancora decimo, undicesimo, sedicesimo. Sbriciolò i luoghi comuni, prese a pedate le mezze misure: dal minimo al massimo, dal massimo al fallimento.
Con la salvezza già in tasca, il presidente Maurizio Setti marca stretto il bilancio. I controlli sono meno allegri. Lo capisco. Resta la cesura di carattere tecnico. Non è tutto, non è poco.
FONTE Roberto Beccantini per La Gazzetta dello Sport