A pochi passi dal traguardo. In equilibrio precario. Come aver scalato la vetta più alta, voltarsi e soffrire di vertigini. Rotolare giù non è mai piacevole.
Thrilling. I finali di gara al cardiopalma del Napoli stanno diventando una tormentata consuetudine, con un unico denominatore comune: l’incertezza. Partite spesso senza storia, da gestire come si fa con una classe di bambini scalmanati. Carisma e pugno fermo. Invece no. Spuntano sempre dei buchi neri. Incomprensibili. Incolmabili?
Paura di vincere, mancanza di astuzia e cinismo, errori tattici e…un pizzico di eccessivo narcisismo. Mettere in saccoccia i tre punti è un’operazione complicata se uno o più di questi fattori si combinano. A Bologna, agli sgoccioli di un match soffertissimo, la vittoria andava difesa con gli artigli fino allo stremo delle forze. Per di più con l’agevolazione della superiorità numerica. Magari, tuttavia, è stato proprio quel cartellino rosso a Konè a spedire gli azzurri tra le braccia di Morfeo. Cullarsi beatamente sulla rimonta effettuata, convinti che una barca inondata d’acqua può soltanto affondare. Ma nel calcio, chi punta in alto, non si sofferma a fare calcoli sul ciglio della strada. In campi perfidi e contro avversari agguerriti finisci per essere investito.
Quando la tensione cala e si gigioneggia attendendo il gong, salgono in cattedra l’esperienza e la personalità. Di chi è in campo, evidentemente. Ma anche di chi ti guida dalla panchina. “Dovevamo fare il terzo gol“, ha riconosciuto nel dopo-gara mister Benitez. Bene. Almeno rinculare inspiegabilmente e lasciare terreno ad una squadra in dieci uomini non è stata una direttiva tecnica. Però l’appagamento inconscio e la sofferenza fisica di alcuni elementi rendeva sfilacciato e molle l’undici partenopeo. E la compattezza, prima di tutto, va mantenuta fino al 95′. E un innesto al centro della battaglia era obbligatorio. Non ci si può sempre affidare alla buona sorte. Perchè in altre situazioni, magari con punteggi differenti (Lazio e Sampdoria), l’atteggiamento passivo e menefreghista pareva proprio lo stesso. Arriva il giorno che sarai castigato. Menomale, aggiungerei.
Ci si specchia un po’ troppo, dicevamo. Come le foche di un circo acquatico gli azzurri sono catturati troppo spesso dalla sindrome del palleggiatore incallito. Ricamare senza colpire, un “tiki taka” caricato a salve. Meno danze e più concretezza, per evitare pasticci. Anche perchè non vogliamo entrare nella storia come tanti Arsenal di Wenger. Gustosi, divertenti, pirotecnici. Ma mai vincenti.
In affanno. Alcuni protagonisti-chiave nel nostro scacchiere sembrano spremuti dagli impegni o in preda ad un’involuzione quanto mai irreversibile. Non vogliamo sparare sulla croce rossa, ma purtroppo Gokhan Inler è sempre più l’ombra di sè stesso. Prima discontinuo e in fin dei conti ancora efficace, ora assente o nel migliore dei casi irritante. Con l’assenza di Behrami, tra l’altro, è costretto agli straordinari quando era claudicante già nell’ordinario. Si spera che la freschezza e l’estro del neo-acquisto Jorginho possano restituire linfa al centrocampo partenopeo, autentica chiave di volta (con tanti punti interrogativi) del progetto di Benitez. Ma un altro sforzo in sede di mercato è palesemente richiesto.
I più grandi dilemmi, però, provengono ancora una volta dall’assetto difensivo. Domenica scorsa le prime battute a vuoto di Raul Albiol. Fisiologiche, aggiungerei. Un calciatore perennemente impiegato e con la gravosa responsabilità di raddrizzare un pacchetto arretrato traballante prima o poi deve battere la fiacca. Il guaio è aver trascurato il problema. O semplicemente minimizzato, almeno nella campagna estiva. Allo stato attuale l’unico pilastro di una torre fatiscente è particolarmente usurato. E ad attenderci potrebbero esserci 8-10 partite nel prossimo mese. Basta con rincorse ai fantasmi e scambi di figurine. Serve una risposta concreta. Ora.
Ivan De Vita
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Articolo modificato 23 Gen 2014 - 10:58