I CAMBI TARDIVI. E’ ormai una tendenza, che è maturata a Bologna e che è stata ribadita con il Chievo: vista dall’alto ed abusando dell’interpretazione, dà quasi l’impressione d’essere una scelta ispirata da gerarchie che paiono consolidate sino a diventare convinzioni granitiche; o forse può darsi che sia semplicemente la lettura di due spezzoni di partite in cui ha prevalso una logica personale. Però è successo per due volte in sei giorni e dunque siamo quasi prossimi alla prova, come direbbe Agata Christie: stadio Dall’Ara, Bologna e Napoli sono sull’1-1, e pur con il sostegno del possesso palla, al quartetto di principi azzurri non viene la giocata giusta, quella che rimodella la partita: cambio al minuto trentatreesimo, un po’ tardivo nell’analisi, dentro Insigne e fuori Mertens, dunque avvicendamento dell’uomo per il posto. Sarà 2-1 dopo un paio di giri di lancette e poi verrà il pari di Bianchi nel finale. Stadio San Paolo, l’altra sera: Napoli-Chievo è 0-1 e, manco fosse la fotocopia della sfida precedente, c’è dominio territoriale ma poco sfogo offensivo, avendo Corini eretto un bunker elastico, con pressing alto e diagonali di passaggio occupate: trentatreesimo pure stavolta, fuori Maggio, Insigne va a sistemarsi sulla trequarti e Callejon (idea rimarchevole) s’abbassa sulla linea dei difensori, inventandosi un’altra carriera e confermando una duttilità che ha pochi eguali. Però, trentatré minuti a Bologna e trentatré minuti poi con il Chievo per incidere con il secondo cambio (altra analogia: il primo, una settimana prima, Hamsik per Pandev al 12′; il secondo, Jorginho per Dzemaili all’11) sanno di radicamento di un’idea di gioco da sviluppare attraverso gli uomini istruiti per eseguire lo spartito. Mentre, invece, si può procedere attivando le energie alternative.
POCHE OCCASIONI CREATE. Certo, drammatizzare intorno a un dato relativo agli ultimi centottanta minuti di gioco sembrerebbe (e sarebbe) esercizio un tantino provocatorio: ma il Napoli che nelle sue ultime tre ore di calcio ha prodotto così poco, rispetto alla massa enorme di occasioni da reti del passato, induce ad una ennesima riflessione. Vero: tre pali contro il Chievo (tutti di natura diversa) e quello sciupio di Bologna, costato quattro punti e spingono a leggersi dentro: ma in un caso e pure nell’altro, ciò ch’emerso dai match attraversati con la tendenza di andare a sbattere contro le muraglie attrezzate, è stata la incapacità nel muovere gli avversari, spostandoli attraverso il giro palla rapido. E poi un macchinoso sviluppo della manovra, sempre orizzontale: quando il Napoli ha recuperato se stesso, non necessariamente a campo aperto e in quelle che comunemente vengono definite ripartenze, è stato in grado di mostrare la propria migliore espressione (in occasione del primo palo di Mertens, il palleggio nello stretto e però a velocità rilevante). Il sospetto che avvinghia è in un appesantimento fisico generato dal tour de force a cui sono stati costretti un po’ tutti (principalmente i centrocampisti, ma anche gli esterni (quelli bassi, quelli alti), condizione inevitabile visto l’ingolfamento del calendario e l’emergenza di un organico che s’è ritrovato privato di elementi centrali. E’ una questione di episodi, indiscutibilmente, però nelle corde del Napoli c’è altro: c’è la verticalizzazione, c’è la scelta di palleggiare e di monopolizzare la partita attraverso il possesso, c’è la pressione alta – che è venuta meno – per rubar tempi di gioco ed avere spazi brevi in cui poi andare a ripartire: un po’ come accaduto in occasione del 2-1 di Bologna, Dzemaili in pressing, Hamsik che va centralmente, Higuain che assiste e Callejon per la sovrapposizione. Quattro passi…
ERRORI DIFENSIVI. Sembrava un capitolo chiuso: invece, tre partite (con l’Atalanta in Coppa Italia, con il Bologna e poi con il Chievo) ed il «vizietto» è ricomparso. Stavolta in forma persino accentuata: perché l’errorino difensivo che ormai ti aspetti finisce per aprire la partita, per indirizzarla, per pregiudicarla, costringendo il Napoli a sforzi eccessivi per rimettersi in piedi. Tra la Sampdoria e il Verona – dunque una in casa ed una fuori – zero gol subiti (ma a Mihajlovic andarono di traverso tre pali, clamoroso quello doppio su conclusione di Gabbiadini), poi riecco lo sballottamento collettivo, con genesi sempre diversa: l’Atalanta segna con percussione da sinistra e in contropiede e vabbè, ci sta di perdersi nelle distanze tra i reparti. Il Bologna trova l’1-0 con cross di Diamanti che non ha coperture e Bianchi che ruba spazio e tempo ad Albiol per la propria prodezza; sul raddoppio rossoblù, novantesimo, palla inattiva, un piccolo fallo in danno di Albiol, comunque complessivamente un’incertezza: Al Chievo basta spostare un attimo il binario di sinistra, infilarsi con Sardo che chiede e ottiene l’uno-due a Thereau: intanto Britos è scivolato per andare a chiudere sulla seconda punta che si defila, Reveillere è rimasto inchiodato e Albiol deve disperatamente provarci, senza riuscire. Il modulo e l’assenza di filtro dinnanzi alla difesa è secondario: è preoccupante l’assenza di elasticità, semmai, è quindi la tendenza a non stringere le linee (né con gli esterni bassi, né con quelli alti nelle due circostanze). E’ comunque indicativo che il Napoli subisca per la terza volta consecutiva e che fatichi tremendamente a concedersi una solidità rassicurante: in assenza della solita macchina da gol, sarebbe più che utile, indispensabile.
FONTE Corriere dello Sport
Articolo modificato 27 Gen 2014 - 09:25