E’ un istante, è un lampo accecante, l’ira che scava nei pensieri più nascosti d’un uomo che scopre improvvisamente di essere terribilmente solo: è il germe della delusione che s’insinua prepotente in quella ferita sanguinante della coscienza di Lorenzino Insigne e al ‘San Paolo’ che lo fischia arriva una risposta ch’è (quasi) peggiore della provocazione. La notte è fatta per sognare ed invece quello è un incubo insopportabile dal quale vorrebbe scappare: e l’insostenibile pesantezza dell’essere è in quel gesto istintivo, il figlio d’una delusione, la reazione (eccessiva) per quel clima di inaspettata fiducia che graffia la pelle e lo trascina sino alle lacrime che poi sgorgano dinnanzi a Benitez e ai compagni.
LA RABBIA… Il calcio è (la sua) vita, è un giardino della felicità che gli si è spalancato a Zemanlandia (tra Foggia e Pescara), è un’iniezione continua di gratificazione (la serie A, le reti, la Nazionale), è un’overdose di riconoscimenti che allargano gli spazi e il suo vissuto: poi, quando s’è spenta (improvvisamente) la luce e il gol è divenuto un tormento, il solare Insigne ha scoperto la malinconia d’un tunnel apparentemente senza uscite, costellato dall’impazienza di trovare un gol (uno solo, finora) in campionato, impregnato dalla vena malinconica di scoprire l’ostilità d’uno stadio che non gli perdona ormai più nulla, né un dribbling sbagliato, né una veronica infruttuosa, né quei palloni a girare accompagnati dagli «ohhh» di disapprovazione. Nessuno è profeta (facilmente) in Patria….
L’ORGOGLIO. Il diritto di disapprovare resta «sacro» e però, quando la lavagnetta luminosa gli ha indicato la strada della panchina e quello spicchio di Fuorigrotta ha espresso il proprio malessere, il «campioncino» ha avvertito il colpo basso, s’è sentito travolto nell’affetto, ha mulinato le braccia, non sapeva neanche cosa fare, come farlo e però qualcosa ha fatto, ha deambulato senza trovare la panchina, l’ha persa dal suo campo visivo, l’ha ritrovata ma aspettando lo spogliatoio per piangere dignitosamente.
BENITEZ. Rafa manda il suo messaggio: «Con Lorenzo ho parlato nello spogliatoio. Lui sa che ha sbagliato. Ma si tratta di un giovane napoletano e andrebbe incoraggiato sempre. Devo dire che si è trattata di una minoranza che ha fischiato. E non si fa questo. Si aspetta la fine della partita. Così come aspettiamo noi per ringraziare, devono aspettare anche loro. Se non sono contenti, fischiano. Ma è preferibile essere sempre vicino alla squadra se la si vuole aiutare a crescere, specie con i più giovani».
SU, RAGAZZO. Poi si cresce, anche attraverso gli errori; si matura e si ritrova la serenità perduta: e ciò che Benitez e i compagni gli trasmettono è la fiducia la considerazione nel suo talento, certo un po’ evaporato, ma strozzato dall’ansia di segnare, perché non gli bastava la punizione al Borussia Dortmund e poi la rasoiata in Germania; e non poteva essere sufficiente la zampata di Verona con il Chievo, né il tap in con l’Atalanta su quella carambola fortunosa: quattro reti, e vabbè. Ma Insigne, il magnifico Lorenzo, andava in cerca di altro ancora, un pezzo d’autore.
L’ALTRA FACCIA. Ma è una serata buffa, anche un po’ paradossale, perché quando Insigne s’è abbandonato sulla panca, Jorginho coglie la Napoli trascinante e riconoscente, che lo congeda dalla sua prima da titolare con un applauso che fa venire i brividi. «E’ stata una gara difficile, ma lo sapevamo: perché affrontavamo una squadra forte come la Lazio, perché abbiamo dovuto combattere a lungo per riuscire a farli aprire, perché c’era in palio qualcosa di importante come la semifinale di coppa Italia con la Roma. Certo devo dire che quando ho colpito il palo io quel pallone l’avevo ormai visto dentro…».
FONTE Corriere dello Sport
Articolo modificato 30 Gen 2014 - 11:28