Ditemi, vi prego, dov’erano i venti punti di distacco tra la Juventus e i ragazzi azzurri, sul terreno di gioco del San Paolo, ieri sera. Ditemelo, perché io non sono riuscito a vederli.
Vero, si dirà che mancava il capocannoniere del campionato, squalificato (e al Napoli mancano gli esterni titolari praticamente sin dall’inizio della stagione); e qualcuno asserirà che i campionati si vincono affrontando con l’identico cipiglio il Sassuolo, il Parma e appunto la capolista; qualcun altro parlerà di centimetri in fuorigioco, di differenti motivazioni; e qualcuno infine dirà che può anche affiorare un po’ di stanchezza in una squadra che ha ammazzato il torneo ormai da un paio di mesi.
Sarà anche vero, tutto questo: ma magari, durante i festeggiamenti di fine stagione, quando sotto una pioggia di coriandoli bianconeri Conte e compagni si fregeranno del terzo scudetto consecutivo, a qualcuno di loro verrà il dubbio di non essere proprio con tanta sicurezza i più forti di tutti.
Perché il calcio alla fine si gioca anche per finali. Quelle singole partite in cui la passione, l’istinto, le urla scomposte del pubblico riescono a fare la differenza; quando sul terreno verde arrivano a ondate le tensioni e le emozioni nude e crude di cinquantamila persone, e si ha la consapevolezza di essere collegati in diretta con duecento paesi e di essere sotto gli occhi di chiunque si conosca, di chiunque si ami.
In quei momenti, in quelle partite, non si pensa ai distacchi, alle tattiche sparagnine, a chi c’è e a chi non c’è: quella è materia per i commenti, per le trasmissioni televisive fiume e per le pagine dei giornali del giorno dopo. In quei momenti, in quelle partite, si gioca per vincere e chi ha gli attributi non se li risparmia e li getta lì, sull’erba, insieme al cuore.
I venti punti sono stati appena erosi e ora sono diciassette, comunque un’enormità, comunque una distanza mortificante non solo per il Napoli ma per tutto il calcio italiano, che propone un campionato che non ha mordente né suspense, un torneo nato morto; ma ieri sera giocatori e tifosi azzurri hanno dato una spallata alle convinzioni di tanti.
Attenzione, nessuno mette in dubbio il valore enorme dei bianconeri; ma ci si aspetta che la squadra bicampione e prossimamente tricampione d’Italia venga comunque se non a dominare, almeno a proporre un gioco scintillante e sicuro, perdendo magari di misura (ci può sempre stare) ma creando diverse occasioni da rete.
Invece non abbiamo visto particolari parate di Reina, e nemmeno errori sottorete dei bianconeri, mentre Buffon ha rassicurato tutti in chiave Mundial con un paio di miracoli e oltre i due gol ricordiamo almeno un paio di nitide occasioni azzurre gettate al vento.
Ora magari ci sarà da ragionare sui cali di tensione, sui punti perduti con le piccole e sui traguardi mancati; ma vi prego, pensiamoci poi. Ora lasciatemi ripensare cento volte a Mertens che si gira come un ballerino in area avversaria e rasoia la palla alle spalle del celebrato Gigi nazionale, o a Callejon ubiquo che contrasta, imposta e conclude. Lasciatemi ripensare a una retroguardia finalmente sicura, e a un Insigne che metterà al signor Prandelli un bel mal di testa.
Lasciatemi ripensare soprattutto a un meraviglioso Don Rafele, che impone il suo straordinario gioco europeo sul modulo italianista della squadra col doppio del suo fatturato.
Domani piangeremo sulle occasioni perdute. Ma oggi, oggi lasciatemi salutare la squadra che sul campo ha dimostrato di essere la più forte, almeno ieri sera.
Perché ieri sera, la squadra più forte aveva la maglia azzurra.
Fonte: Maurizio De Giovanni per Il Mattino
Articolo modificato 31 Mar 2014 - 07:53