Ci sono gli applausi, e poi c’è la commozione. I capelli lunghi, bagnati. Gli occhi sereni. Mai una polemica (che sia una), mai una palla persa senza correre dietro l’avversario. Carmelo Imbriani era così, un lottatore.
Stonava, e non poco, una bara in un campo di calcio. Eppure il 15 febbraio 2013 era così. E’ stato duro da mandare giù, vederlo salutare dalla curva, dal suo popolo, in uno stadio che era stato il suo e che da allora sarà il suo. La maglia oggi esposta in conferenza stampa con immenso rispetto da Benitez e Bigon non è casuale. Così come non era casuale Carmelo Imbriani.
Non era casuale Boskov, quando diceva a Ferlaino di non prendere Pippo Inzaghi dal Parma. Tanto c’era Imbriani. Non era casuale il suo primo gol all’esordio da titolare a Brescia: pennellata di Pecchia e mezza rovesciata al volo. Non era casuale, anche se sembrava piuttosto semplice, quel suo appoggio di piattone destro che siglò contro l’Inter al San Paolo. Non era casuale la sua corsa dopo quel gol: genuina, sincera, gioiosa. Erano altri tempi, eppure il calcio non sembra cambiato. Non era casuale quel tacco al volo sull’1-1 a Torino contro la Juventus, che se entrava se ne veniva giù lo stadio.
Non era casuale, Carmelo Imbriani, nella sua intervista al Mattino in cui rivela di essere malato. Da leggere e rileggere, cento volte.”I primi giorni sono stati tremendi. Non me l’aspettavo e facevo tanti pensieri: non avrei voluto farmi vedere senza capelli, così secco… Poi ho capito che non devi essere ossessionato e non devi vergognarti per una malattia, ma affrontarla con determinazione”.
“Non potrò tornare prestissimo, lo so. Ma ne sono sicuro, tornerò” – assicurava Carmelo. Il 15 febbraio dell’anno scorso se n’è andato. Ma non a caso. Perché Imbriani era un bravo ragazzo. Uno di quelli che oggi, nel calcio moderno, farebbero ancora bene.
Raffaele Nappi