Ci sono calciatori divenuti campioni altrove e passati soltanto per pochi anni sulle sponde partenopee, brevi momenti utili per rendere blasone anche solo con la testimonianza di un passaggio non determinante ai fini dei risultati ma utile per alzare l’asticella del livello di prestigio di una società che nel tempo è cresciuta anche senza vincere tanto, grazie ai grandi calciatori che la storia ha visto indossare la casacca azzurra. E’ sicuramente il caso di Kurt Hamrin, svedese di Stoccolma, uno dei mitici scandinavi che nei mondiali del ’58 si giocò la finale col Brasile di Pelè, persa ma divenuta palesemente la prova di una grande nuova cultura calcistica, quella nordeuropea. La sua campagna italiana comincia a Torino con la Juventus, si dice che Agnelli lo abbia acquistato dopo aver visto la gara Portogallo-Svezia, rimanendo impressionato dalla tenacia dello svedese, ma i bene informati asseriscono che in realtà un minatore italiano che lavorava in Svezia avesse scritto una lettera in cui elogiava le doti dello scandinavo a seguito della quale il presidente bianconero si convinse a mettere mani al portafogli.
Ha giocato per i grandi del calcio italiano, a partire da Nereo Rocco che lo accolse a Padova dopo che la Juve di Boniperti preferì accogliere in squadra Charles e Sivori, coprendo il limite massimo degli stranieri all’epoca,costringendo così Kurt al passaggio nella meno blasonata squadra veneta, dove però divenne “un’ala destra elegante e micidiale. Aveva tiro e segnava con facilità. Aveva fantasia e visione di gioco. Era lieve e veloce, in campo volava: lo chiamano Uccellino. Era un grande opportunista: con dribbling stretti, scatti, guizzi e allunghi puntava sempre l’avversario cercando il tunnel o il rimpallo” o almeno era così che “La Gazzetta dello Sport” lo ricorda nelle descrizioni utili per gli almanacchi di calcio. Il passaggio a Firenze è la definitiva consacrazione del calciatore, dove in 295 presenze mette a segno 150 gol, record battuto solamente da Batistuta quasi mezzo secolo dopo, un grande risultato per una mezz’ala, un giocatore chiamato a tergiversare sulle fasce che diventa invece goleador quasi come fosse una prima punta di ruolo, ecco forse il passaggio cardine che divide un grande calciatore da un mito. Finì alla corte del Milan oramai trentatreenne, dove con Trapattoni e Lodetti formava una spina dorsale matura ma esperta. Gli anni milanesi aprirono le porte alla lenta regressione di una fantastica carriera, che vedrà chiudere i battenti proprio a Napoli dove, a 37 anni, concluse definitivamente l’esperienza italiana per tornare a giocare ancora per la sua città, questa volta l‘IFK (calcisticamente nacque nell’AIK).
A Napoli in 22 presenze dal ’69 al ’71 riuscì a segnare 3 volte ma ciò che fu importante è stato l’apporto in termini di esperienza che il calciatore svedese lasciò in dote ad una squadra giovane ed inesperta sotto l’aspetto della mentalità vincente. Hamrin è e resterà un mito del calcio, uno di quei nomi scalfiti in oro nel privilegiato elenco di grandi campioni, di cui si potrà dire che ha lasciato il segno anche all’ombra del Vesuvio, per pochi istanti, attimi brevi ma sufficienti per essere fieri di averlo avuto in squadra come outsider, come riserva di lusso, come asso nella manica, il campione tascabile utile per dieci minuti o poco più, insomma chiamatelo come volete, per noi sarà sempre Hamrin, “l’uccellino azzurro“.
Ecco alcune immagini di una delle più forti mezzale del nostro campionato: