Nella montante marea mediatica di commenti, notizie e analisi di quanto è successo a Roma a margine della finale di Coppa Italia, qualcosa sembra sfuggito tra le pieghe. Un dettaglio, forse; un particolare che nulla aggiunge o toglie alla gravità di un evento che ha giustamente messo in moto un’ondata di sdegno e di riprovazione. Il dettaglio è il seguente: in occasione di una partita di calcio abbastanza importante, organizzata in campo neutro (si sottolinea: neutro) rispetto alle due squadre contendenti, un tifoso napoletano non iscritto nelle liste degli ultrà è stato gravemente ferito nel corso di uno scontro tra opposte tifoserie. Sì, ma quali tifoserie? Una era ovviamente quella azzurra; l’altra, quella romanista. Quella di una squadra, cioè, non coinvolta nella partita che si doveva giocare.
Il gesto di un folle? Un delinquente isolato? Probabilmente. Quello che però è davvero sorprendente è il fatto che non ci sia nessun motivo di rimanere sorpresi. Cerchiamo di spiegare il perché. Dall’inizio di questo torneo si è registrata una folle, assurda moda che ha contagiato pressoché tutte le curve d’Italia: quella di intonare cori che augurino a Napoli e ai napoletani (attenzione: non alla squadra o ai calciatori, ma alla città e ai cittadini) di perire nel corso di terribili catastrofi naturali, o per malattie epidemiche. Si inneggia di volta in volta al Vesuvio perché cancelli l’intera popolazione con una bella eruzione, al colera perché estingua l’etnia napoletana o più semplicemente agli stessi napoletani perché la smettano di sentirsi abusivamente italiani o anche perché attendano con maggiore cura alla propria igiene personale e non facciano sentire la puzza per la quale, recitano i cori, scappano anche i cani. Questi cori, reiterati all’infinito e diventati curiosamente una sorta di bandiera per l’esercizio della libertà ultrà, hanno provocato sporadiche e innocue squalifiche dei settori in cui vengono cantati. C’è correlazione tra la violenza che si è verificata a Tor di Quinto e i cori cantati in tutta Italia? Crediamo fortemente di sì.
Registrato il fallimento della normativa vigente che dovrebbe tutelare la sicurezza degli stadi, tessera del tifoso e biglietto nominativo in primis, come abbiamo visto l’ingresso negli impianti è assolutamente consentito a qualsiasi energumeno. Se metto ai tornelli un ragazzo di vent’anni, dandogli trenta euro per il lavoro di controllo per la partita e questo si trova al cospetto di un manipolo di delinquenti tatuati, non posso sorprendermi se durante la partita vengono esplose bombe e lanciati fumogeni con appositi fucili. Ogni curva è ugualmente infestata da questi individui: quella dell’Atalanta, del Bologna, della Lazio o del Napoli non differiscono tra loro nella sostanza. E la cosa divertente è che, data la simbologia libertaria dei cori anti Napoli, essi probabilmente trovano pure l’acquiescenza delle frange della tifoseria organizzata azzurra. Ma l’odio, alimentato dai cori di fatto lasciati impuniti (non si conoscono fermi di polizia, né le società sono state penalizzate in classifica per la responsabilità oggettiva, come peraltro previsto dalla normativa federale mai applicata), prospera e cresce.
La violenza di cui è stato vittima Ciro Esposito viene da lontano: viene da un modo di considerare la città e i suoi abitanti che non trova alcun fondamento nella realtà, nel silenzio pauroso della società civile che pure dovrebbe alzare la voce indignata. Napoli, non saremo noi a doverlo spiegare, è un luogo complesso perché è una metropoli occidentale di oltre due milioni di abitanti; è vero, ci sono quartieri dove il degrado urbano è insopportabile, e altri dove si annida una delinquenza feroce. Ma questa è una condizione condivisa da quasi tutte le realtà cittadine di grandi dimensioni, dove la bassa disponibilità di lavoro e di strutture spesso porta a un controllo sociale difficile. La colpa di tutto ciò è condivisa da tutti, istituzioni, cittadini, forze sociali, e affonda le ragioni in una storia antica. Ma Napoli è anche un patrimonio di questa nazione, un distretto allargato che racchiude alcune delle realtà artistiche, archeologiche, turistiche e naturali che sono prime nel mondo e di interesse non rinunciabile per l’Italia intera. A chi giova alimentare una cultura dell’odio, un’attribuzione di stereotipi tragicamente negativi alla terza città del Paese?
Crediamo fortemente che l’episodio di sabato scorso sia frutto e conseguenza di un atteggiamento costantemente esibito, nel corso della stagione, da gran parte delle tifoserie italiane, quel che è peggio anche quando il Napoli non giocava. E’ un atteggiamento che non può e non deve essere ridotto, come pure è stato fatto anche da voci politiche nazionali, a un mero e innocente “sfottò da stadio”. E’ il canto mortifero di un popolo in guerra con se stesso. A Napoli ci sono centinaia di migliaia di tifosi che non si riconoscono negli ultrà impietosamente inquadrati dalle telecamere, né più né meno di quanto si riconoscano gli appartenenti alla società civile delle altre città nelle frange becere, ottuse ed estreme delle tifoserie organizzate delle squadre locali. Tifosi che sono stanchi di essere insultati, e che vorrebbero accedere tranquillamente allo stadio per esprimere la propria gioia per una bella vittoria. Forse Ciro Esposito, che oggi giace in un letto d’ospedale intubato e piantonato, era uno di questi. Se il calcio è lo specchio di alcuni aspetti della vita di un Paese, abbiamo tutti un serio, serissimo problema. Tutti. Per chiunque si faccia il tifo.
FONTE Maurizio De Giovanni per il Corriere dello Sport