Lui sa cos’è la camorra. «L’ho studiata anche sui libri di storia: Garibaldi, quando arrivò da queste parti, affidò ad alcuni camorristi la gestione dell’ordine pubblico».
Corrado Ferlaino, 82 anni e una bacheca da presidente del Napoli ricca di trofei (due scudetti, Coppa Uefa, Supercoppa e due coppe Italia), non l’ha solo studiata. Ha ricevuto minacce, nei cortili delle sue case di via Crispi e corso Vittorio Emanuele hanno fatto esplodere bombe e hanno incendiato le auto. «E per questo, dodici anni fa, ho detto basta».
Perché lasciò il Napoli il 14 febbraio 2002?
«Le bombe, le minacce, i timori per me e i miei figli: ho subito di tutto, prima e dopo gli scudetti. In quel particolare periodo c’erano tensioni fortissime, me sono scappato perché avevo paura. E pensare che due anni dopo avrei potuto riprendere il Napoli».
Nell’anno del fallimento del club, il 2004?
«Esatto. Quando si candidò Gaucci, mi telefonò Carraro, allora presidente della Federcalcio, e mi chiese se volessi tornare alla guida della società. Gli dissi no, lui conosceva la mia storia e sapeva cosa avevo subito. Sarebbe poi arrivato De Laurentiis».
Nell’82 un piper sorvolò il San Paolo durante una partita esponendo la scritta «Ferlaino vattene».
«La magistratura accertò che era una manovra della camorra per sottrarmi il Napoli. Erano anni difficili, allora le scommesse non erano legali e il giro del totonero era nelle mani di una potente famiglia di Forcella, i Giuliano».
Quelli che scattarono la foto con Maradona nella vasca da bagno a forma di conchiglia.
«Io tenevo quella gente lontana dal Napoli, ero durissimo. Ai calciatori, compreso Diego, proibivo i contatti con esponenti di certi ambienti ma loro erano egualmente avvicinati: erano ospiti alle feste, ricevevano regali. Io, invece, ricevevo chiamate dalla Questura: mi dicevano di fare attenzione perché in alcune intercettazioni quei personaggi parlavano di scommesse su vittorie e sconfitte della squadra».
Temeva il coinvolgimento dei suoi calciatori?
«Dopo quelle segnalazioni offrivo premi doppi o tripli in caso di successo: dovevo cautelarmi, dovevo vincere».
Mai visti i Giuliano in ritiro, al campo di allenamento, allo stadio?
«Una volta, alla vigilia di una partita in casa della Samp, si presentarono in hotel. Eravamo sulla Riviera ligure e arrivarono nella hall tre esponenti della famiglia con le loro fidanzate. Chiamai la Questura a Napoli: mi dissero che quei personaggi erano incensurati. Non mi fermai e telefonai al commissariato locale, si presentò un dirigente napoletano che chiese ai tre e alle loro accompagnatrici i documenti: li mostrarono e poi andarono via».
Una lotta dura.
«Assolutamente sì, quei personaggi erano il mio primo nemico. Spesso si celavano dietro esponenti del tifo organizzato, però io con loro non trattavo: niente biglietti omaggio, niente partecipazioni a trasmissioni televisive o a feste dei club. Forse per questo cominciarono a minacciarmi. Ho resistito per molti anni».
Il capo dello Stato Napolitano ha lanciato un messaggio forte sulle relazioni tra i club calcistici e gli ultrà: vanno subito spezzate.
«I gruppi violenti non sono soltanto a Napoli. Qui infiltrazioni sono possibili, basta leggere le scritte di alcuni club allo stadio. Ma c’è un problema sociale da affrontare una volta per tutte e certo non si risolve con campagne negative come quella di Gomorra. Ci vuole lavoro per combattere la camorra e qui non ce n’è più. Nella mia carriera da presidente non sono mai sceso a patti. Se li sottoscrivi con certi personaggi, li hai dalla tua parte quando vinci. Ma se perdi si rivoltano contro. Io non cedevo e loro mi odiavano. I calciatori, forse, si mostravano disponibili per ottenere sostegno durante le partite».
Lei, tifoso del Napoli, non è mai più tornato al San Paolo. Ha visto la finale di Coppa Italia in tv?
«Certo, la gioia per questo successo è stata offuscata dal gravissimo ferimento di Ciro, a cui va il mio abbraccio forte: scoprire che un ragazzo che non può muoversi è agli arresti ci fa riflettere».
Ha visto anche Hamsik recarsi davanti alla Curva Nord dell’Olimpico per parlare con Genny ’a carogna?
«Una pazzia, una pazzia assoluta davanti alle tv di tutto il mondo, al presidente del Senato e al capo del governo, ai massimi rappresentanti dello sport italiano. Ma chi è stato quel folle che ha ordinato a un ottimo calciatore, peraltro non italiano, di parlare con un professionista del tifo? Cosa avrà potuto mai dire o rispondere quel bravo ragazzo slovacco? Io, quattordici anni fa, parlai direttamente ai tifosi nello stadio di Pistoia».
Cosa accadde?
«Era la penultima giornata del campionato di serie B, vincevamo 1-0 con il gol di Schowch: quei tre punti ci avrebbero consegnato la promozione. A dieci minuti dalla fine migliaia di tifosi entrarono in campo: partita sospesa e rischio di sconfitta a tavolino. Non mandai il capitano a parlare, presi io il microfono e mi rivolsi ai tifosi: tornate sugli spalti, convincete anche i più riottosi, perché questa partita rischiamo di perderla e di compromettere la promozione. Mi ascoltarono».
All’Olimpico il silenzio in segno di rispetto per Ciro è stato interrotto dall’esplosione di bombe carta e dai fischi all’Inno di Mameli.
«Sono stato presidente del Napoli per oltre trent’anni, a lungo dirigente di Lega e di Federazione, ma ho trovato un errore far suonare l’Inno dopo quanto era accaduto. Non lo suonino per le partite del Napoli o a Napoli, in una città che soffre tanto».
Lei è entrato nel calcio nel 1969 e ne è uscito nel 2002, dall’epoca romantica a quella del business ma anche dei veleni.
«Una trasformazione che ha riguardato la nostra società, non solo il calcio. E, tornando alla malavita, non è presente soltanto nelle tifoserie: è in molti ambiti. C’è chi cede alla camorra perché non trova lavoro a Napoli. Sono pochi, per fortuna: questa crisi, che si contrappone al rilancio di Milano con l’Expo 2015, non dev’essere mai una giustificazione».
Ha frequentato a lungo gli stadi e conosce le tifoserie: come si recide questo legame?
«C’è una sola parola: prevenzione. Io ascoltavo i dirigenti della Questura e isolavo in maniera sempre più decisa i tifosi violenti. Per fortuna, si trattava dell’uno per cento del pubblico del San Paolo. C’è una quasi totale parte sana che non può essere accomunata agli ultrà. È un errore che non si deve commettere in questi giorni, adesso che parlare male di Napoli e dei napoletani è diventata una moda: mi fa tristezza e rabbia».
Fonte: Il Mattino.
Articolo modificato 7 Mag 2014 - 13:26