Tra le ipotesi prese in considerazione dagli inquirenti circa l’identità del mittente della busta con minacce e con proiettile fatta recapitare ieri al Mattino c’è anche quella che conduce a frange ambigue delle forze dell’ordine. Si tratta di una probabilità che è certamente inquietante ma che non coglie di sorpresa gli inquirenti, per una serie di motivi che vale la pena approfondire.
Le rivendicazioni e gli slogan contenuti nella lettera di minaccia segnalano un particolare taglio di scrittura con inclinazioni anche sociologiche, secondo un linguaggio a tratti anche ricercato (quasi da documento giuridico) che oscilla tra il lessico sindacale e l’assertivo. Ovvero argomentazioni che spesso si ritrovano sul web, nei forum di discussione ove talvolta fanno capolino anche rappresentanti delle forze dell’ordine. Chiaramente si tratta di argomentazioni al netto delle minacce, degli attacchi violenti, della prosa folle che segnalano autore o autori con profili psichiatrici patologici. La materia è molto scivolosa e va maneggiata con cura, la stessa che forse non sempre è stata utilizzata in questi ultimi mesi e in queste ultime settimane quando sono stati affrontati, ai più diversi livelli, i problemi connessi al comparto sicurezza. C’è un dato chiaro, incontrovertibile: i poliziotti (ma anche i carabinieri e i finanzieri, e non solo) vivono una crisi molto forte perché si sentono abbandonati e trattati come sfogatoio e terminale di tensioni che nascono in una società di cui essi stessi sono parte.
Essi vivono sulla propria pelle le debolezze e le contraddizioni di un sistema stretto dalla morsa della crisi. È una questione antica, esplosa già durante gli anni di piombo. Ne ha riparlato recentemente il capo della Polizia, Alessandro Pansa, nel discorso di insediamento all’indomani della sua laboriosa nomina, citando alcune celebri espressioni di Pasolini che decise di schierarsi, in quegli anni, al fianco dei poliziotti. Non «carne da macello», ma figli della gente umile del Sud, difensori di quello Stato che allora li sfruttava mandandoli spesso a morire.
Spediti in strada quasi sempre senza un adeguato aggiornamento professionale (per mancanza di fondi), soffocati da problemi organizzativi anche minimi (la benzina, i pezzi di ricambi nelle auto, gli uffici sporchi e brutti, eccetera eccetera), ma con un bagaglio culturale ben diverso dai loro colleghi di venti e trent’anni fa e quindi anche con una consapevolezza più piena, si sono visti bloccare persino gli aumenti salariali legati agli avanzamenti di carriera. La loro rabbia è cresciuta quando qualche altro comparto della pubblica amministrazione, come ad esempio la scuola, si è visto riconoscere tali aumenti dopo aver solo minacciato le proteste e trovandosi al fianco l’opinione pubblica e i media. Di questo stato d’animo si sono fatti portavoce nelle sedi istituzionali (a cominciare dalle diverse commissioni parlamentari) i vertici del comparto: oltre al capo della Polizia anche i comandanti generali dei carabinieri e della Guardia di Finanza. Non era scontato, anche perché sono davvero pochi i precedenti e perché la struttura militare agisce da schermo: hanno fatto la voce grossa, segnalando con grande onestà intellettuale e senza ipocrisie il clima di profondo disagio vissuto all’interno delle complesse organizzazioni da loro guidate. Hanno aggiunto che non sono tollerabili ulteriori tagli e che, andando in questa direzione, non sarà più possibile garantire taluni servizi anche minimi.
La «rivolta» è figlia di una percezione larga, diffusa a livello centrale e periferico: gli addetti del comparto sicurezza si sentono abbandonati. Vedono lo Stato, la politica o lontani o addirittura assenti. Anzi, vedono che lo Stato, nelle sue articolazioni, è più attento ai loro nemici, a quelli che essi combattono ogni giorno in strada. Uno strabismo figlio di una società dove la democrazia si sta progressivamente articolando in altre e nuove forme, ma anche il segno di un disagio molto forte. In questa battaglia difensiva, e in questo ragionamento che spesso smarrisce proprio la ragione, anche i media sono affiancati a quello Stato che fa finta di non capire: più attenzione alle ragioni dei violenti, a chi ha ucciso il poliziotto Raciti, più propensione a comprendere i loro disagi nella società che non quelli di chi è collega di Raciti.
In questo ragionamento che spesso smarrisce proprio la ragione, si ritrovano anche segmenti degli organismi di rappresentanza della polizia che, a forza di cavalcare la protesta, escono fuori dai binari e smarriscono lo spirito stesso dell’essere sindacato. È accaduto, incredibile a dirsi, che il segretario nazionale di un sindacato (il Coisp) per polemizzare con Pansa abbia detto per paradosso, pubblicamente: «Vogliamo Genny ’a carogna come capo della Polizia». Non era mai accaduto: segno di una decadenza del linguaggio pubblico che si può ritrovare solo in un certo mondo politico radicale.
In un quadro di questo tipo, con riferimenti che diventano meno saldi, può accadere purtroppo di tutto ed è poi più difficile fare marcia indietro. Per la verità, gli stessi sindacati di Polizia hanno capito in queste ultime ore che era assolutamente necessario abbassare i toni, in coincidenza anche con un appuntamento solenne: la cerimonia, in programma oggi, per il 162esimo anniversario del Corpo. Certo, alcune fibrillazioni sono anche figlie della lunga lotta per l’insediamento ai vertici degli apparati, ma non è questo il punto: le battaglie ci sono sempre state, piuttosto la politica aveva e ha l’obbligo di lavorare per favorire i processi di «pacificazione», indicando percorsi certi e persone autorevoli, credibili.
È giusto anche discutere per ricercare le responsabilità, per capire se e dove il Viminale abbia sbagliato. Ma prima ancora va ben compreso il grande disagio che vive tutto il comparto sicurezza che è strutturale, radicato, non arginabile con un’operazione di semplice maquillage quale può essere un eventuale piano di accorpamento, concepito in nome della spending review ma destinato a sollecitare ulteriori tensioni. E perciò la (delirante) lettera inviata ieri al Mattino va letta nella sua giusta dimensione: non va considerata semplicemente come lo sfogo di un pazzo, va inquadrata in un clima più generale che invita tutti a riflettere.
Fonte: Il Mattino
Articolo modificato 8 Mag 2014 - 14:25