Per gli almanacchi era Faustino Jarbas, ma si sa che i brasiliani vengono ribattezzati e conosciuti con il loro soprannome, ed il suo era Canè. Particolare e ambigua la storia di Faustino, che in Brasile si diceva giocasse quattro gare in due giorni tanto che il suo fisico fosse tagliato per stare in campo anche in condizioni di elevato minutaggio. Dalla piccola squadra dell’Olaria la leggenda di Canè si affaccia al calcio italiano quasi per caso. Fu una specifica richiesta dell’allora presidente azzurro Achille Lauro a far cadere la scelta su Faustino, anche se si narra che le dinamiche dell’ingaggio furono a dir poco singolari. Si dice infatti che fu proposto al presidente azzurro una sorta di set fotografico di alcuni calciatori brasiliani allora gestiti dal procuratore Jose De Gama, che inviò questo dossier promettendo di mandare i calciatori che si ritenevano adeguati e di pagargli metà del viaggio, l’altra parte ovviamente sarebbe spettata a Lauro.
Scegliere attraverso una foto era impresa ardua, almeno quanto lo era scegliersi il compagno e o la compagna di una vita così come era in voga negli anni sessanta, particolarmente tra gli emigranti, ma il presidente non esitò un attimo a far cadere la sua scelta su Canè, attaccante brasiliano purosangue, utilizzando un metro di giudizio da tipico uomo d’altri tempi, sempliciotto e abituato a vivere di luoghi comuni. Chiamò a rapporto l’allora diesse Gigino Scuotto e gli disse, senza mezzi termini: “Vedi Giggì, dobbiamo prendere chisto, perché è ‘o cchiù brutto. Chist’è niro, gli avversari si spaventeranno e lui farà i gol. Pigliàmmelo!” Incredibile ma vero Faustino arrivo a Napoli e, alla fine della sua gloriosa cavalcata in azzurro, risulterà essere uno degli elementi più azzeccati delle campagne acquisti sotto la guida presidenziale di Lauro. Lo stesso calciatore brasiliano smentirà la versione senza dubbio “folkloristica” spiegando che in realtà il presidente scelse lui attraverso una assortita documentazione supportata da alcune prodezze immortalate in foto.
Nonostante ciò, Canè ebbe qualche problema di ambientamento nei primi anni napoletani, al punto che anche Lauro fu accusato di non investire le cifre giuste e necessarie in squadra e il brasiliano “sconosciuto” era il capro espiatorio degli errori commessi in sede di calciomercato. Qualche mese più tardi i pessimisti cronici ritrattarono la loro versione quando Canè cominciò a mettersi in luce e a segnare gol importanti ai fini del risultato finale. Anche nell’era Altafini-Sivori si ritagliò il suo spazio, mettendo a segno proprio in quella stagione 12 gol. Alla fine vestirà la maglia azzurra dal ’62 al 69 per 166 volte, mettendo la palla nel sacco per ben 49 volte. Dopo la parentesi di tre anni al Bari ritornerà in azzurro per vestire per altre 51 volte i colori di Napoli (altre sette reti) dimostrando attaccamento e riconoscenza anche dopo gli anni da calciatore, trasferendosi definitivamente in città dove tutt’ora vive.
L’aneddoto del suo arrivo a Napoli è assolutamente da riportare e da riflettere per quanto sia sintomatico in relazione alla figura del presidente Lauro: “Quando arrivai a Napoli con il presidente dell’Olaria, la mia squadra brasiliana, con la moglie e l’impresario De Gama andammo da Lauro, nella villa di Massalubrense. Da Napoli arrivammo su uno dei motoscafi del Comandante. E che cos’era la villa! Mi sembrava di essere a Hollywood. E tutta quella piantagione attorno con alberi da frutta che non avevo mai visto… Tanto colore, tanti odori. Ero un ragazzo ed ero spaesato. Lauro ci invitò a pranzo e, poiché eravamo in 17, invitò una cameriera a sedersi a tavola. Nel pomeriggio ci fece imbarcare sul suo yacht, il Karama, per una gita nel golfo. Al ritorno firmai un contratto di due anni ed ebbi sei milioni di lire di ingaggio. Era estate e il Comandante vestiva sempre di bianco“.
Altre epoche, altro calcio. Eppure attraverso quel calcio Faustino Jarbas Canè è divenuto leader e pezzo di storia napoletana di diritto, nonostante le mancate vittorie e gli anni poco edificanti, lui è il simbolo dei calciatori azzurri amati e apprezzati anche solo per il loro modo di testimoniare l’amore verso la città, senza dimostrarlo attraverso affermazioni e trofei. E come recitava uno striscione “colorito” di quell’epoca “Didì, Vavà e Pele song a uallera e Canè” un modo simpatico per ricordare a tutti la bravura e le doti indiscusse del centravanti brasiliano divenuto ben presto figlio di questa città.