L’Italia s’è desta. Risorte dal torpore dopo anni di comparse, ieri sera le squadre italiane hanno ripreso le luci della ribalta. L’Inter col fiatone, la Viola con maestria, l’inossidabile cuore Toro e la Roma nel delirio più totale. Il Napoli, invece, i suoi turchi li aveva già ammaestrati una settimana fa. Cinque delle nostre agli ottavi di finale di Europa League, mai accaduto nella storia. L’orgoglio dovrebbe gonfiarmi i polmoni. Eppure ho un senso di nausea, all’apparenza inspiegabile. Una crisi di rigetto dopo aver introiettato nelle vene sangue italico probabilmente infetto.
Infetto sì. Perchè quello Stivale ha troppi fori da dover coprire, ormai anche dall’esterno ci guardano perplessi. Nella bagarre immonda andata in scena a Rotterdam, una banana gonfiabile è stata lanciata in campo all’indirizzo del giallorosso Gervinho, suscitando l’ira dei suoi tifosi, dei media nazionali e dell’Uefa tutta. Episodio chiaramente deprecabile e al calciatore ivoriano va tutta la nostra solidarietà. Ma non è questo il punto. Gli stessi romanisti che stigmatizzavano l’accaduto pochi istanti prima inneggiavano alle ormai note lave per la sepoltura di Napoli. In una gara all’estero dai contenuti già problematici, in un contesto in cui il Vesuvio faceva davvero fatica ad appartenere. Lo scarto di significato è effimero, l’ipocrisia dietro le rivendicazioni è invece senza fine. Perchè la discriminazione ha valenza ed effetti univoci. Non si può pretendere rispetto se non se ne conosce il valore. L’attitudine tutta italiana di ribellarci solo a ciò che ci fa comodo. No, a me non piacciono questi giochetti. Prima di salire sul carro dei vincitori, darei un’occhiata ai passeggeri.
Vi dirò di più. Ieri avevo tutte le intenzioni di tifare per il calcio. Nemmeno per Bernini, in fondo. Perchè i teppisti non nascono solo accanto ai tulipani, e noi dovremmo saperne qualcosa. Ma il clima dello stadio del Feyenoord era incomprensibile per una partita di pallone. Continui atti intimidatori dagli spalti con la severa intenzione di assumere il controllo della gara. Ecco a cosa volevo ribellarmi, per puro amore di quella palla rotonda. Va a segno Gervinho, ironia della sorte, e la mia passione ha esultato. Per pochi secondi. Immediatamente zittita da quel nazionalismo umiliato e preso a calci ormai troppe volte.
Sono stanco di questo odio. L’odio invece non sembra mai esserlo. Mi brillavano gli occhi ieri quando leggevo di sostenitori del Torino che scambiavano gadget per i propri figli con i tifosi baschi. L’essenza di uno sport che ormai tramonta. E intanto per noi forse è più facile trovarla oltre l’orizzonte, dove le diatribe campanilistiche di un Paese incancrenito risuonano come un eco lontano. “Il terzo tempo” in Italia è durato meno di qualche mese. Questo la dice lunga, oserei dire. I tifosi del Celtic, altro popolo meraviglioso e viscerale, si chiedevano cosa avessero da inveire gli interisti sulle tribune di Glasgow giovedì scorso. “C’mon Naples” hanno intonato quando hanno capito a chi si riferissero, anche se non avranno intuito le ragioni. Nemmeno noi, in fondo. Culture diametralmente opposte. Non ci capiranno mai. Faccio fatica io, figuratevi loro.
Tutti insieme appassionatamente. Nell’urna di Nyon. O nella caccia al Ranking Uefa, solo perchè quello interessa tutti trasversalmente. Ma mai capaci di fare fronte comune. Non esiste più da tempo, e non può una notte di fierezza risistemarne i cocci. L’orgoglio italico ritrovato e fatto a fettine, utile solo ai fiumi di retorica senza foce. Da Nord a Sud ognuno combatte la sua personalissima guerra. Di sacrifici in nome degli “altri”, forse, ne abbiamo già fatti troppi.
Ivan De Vita
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