Nella buona e nella cattiva sorte

26 anni dopo. 26 anni da quella magica notte di Stoccarda del 1989. Da allora il Napoli è scivolato, sprofondato e resuscitato. Pian piano, fino a ieri sera. Tornare tra le prime otto squadre di una competizione europea. La Coppa di riserva, oserei dire, ben distante a livello di prestigio anche da quella magica Coppa Uefa sollevata da Maradona e compagni. Eppure simbolo d’orgoglio, di un’internazionalità finalmente ritrovata. E da difendere, con le unghie e con i denti.

Sono proprio queste soddisfazioni che ci fanno rimbalzare nei periodi più bui, dove pareva impossibile riprendere il cammino. Un po’ quello che accade ai tifosi del Parma in questo momento, se vogliamo fare un parallelo a dire il vero ancora generoso. Lungi da me bacchettare il pubblico ricordando la solita e malinconica filastrocca dell’”eravamo in C, senza casacche nè palloni”. Ma ieri sera gli eventi di Roma mi hanno fatto riflettere. Senza entrare nel merito degli ultrà sulla balaustra a complottare con i giocatori. Due pesi e due misure eloquenti se pensiamo ad accadimenti simili.

Ma il mio punto è un altro. Una piazza tanto calda da vivere in maniera viscerale il rapporto con la squadra, a volte fin troppo. Bene, i giallorossi hanno deluso aspettative e proclami facendosi sfuggire di mano qualsiasi obiettivo apparentemente alla portata. Giusto il rammarico e e contestazioni, ma quel clima di subbuglio in altre città sarebbe inverosimile anche se si lottasse per non retrocedere. Girare le spalle ai propri beniamini, colpevoli sì di un inspiegabile crollo ma pur sempre secondi in classifica, è un gesto troppo estremo. Abbandonare la curva nel momento del bisogno è una protesta becera, degna di chi predilige la sete di vittoria alla passione. Le ambizioni e le pretese non possono sbranare il cuore. Soprattutto se in bacheca a luccicare è la polvere, non i trofei.

Vi starete chiedendo: ma a noi cosa importa della Roma e dei romani? Nulla, evidentemente. Ma i termini di paragone con il “vulcanico” popolo partenopeo non sono così insignificanti. Il processo di crescita del progetto De Laurentiis, con i suoi picchi e le sue battute a vuoto, è costellato da sempre più numerose scosse telluriche. Dovute molto spesso a promesse troppo ricamate, ma anche ad una pressione costante che può solo far rima con insoddisfazione. La voglia di vincere è sempre una puntura di adrenalina, ma va incanalata bene nelle vene altrimenti si rischia una crisi di rigetto.

Benitez ha i suoi limiti umani, gli errori tecnici commessi e una testardaggine talvolta irritante. Ma l’equilibrio soprattutto umorale predicato dal primo giorno va assolutamente perseguito. Per evitare catastrofi dopo una sconfitta (seppur disastrosa), stagioni definite fallimentari con tre obiettivi ancora pienamente in corso e cambi di opinione eccessivi e repentini. Anche, se non soprattutto, da parte della stampa. Perchè se un giorno, malauguratamente, qualcosa dovesse andare seriamente storto si finirà per mettere a ferro e fuoco l’intero stadio. E la colpa sarà di tutti, nessuno escluso.

Roma, Lazio in Coppa Italia, Fiorentina e l’affascinante quarto di finale contro il Wolfsburg. Quest’anno la nostra personale Via Crucis abbiamo deciso di rinviarla dopo Pasqua. Con un po’ di benzina in più nel motore (leggi Zuniga e Insigne). Ma sarà durissima e ci giocheremo in venti giorni una buona fetta della stagione. Il turnover sarà indispensabile, anche se la rosa non permette grossi sbalzi. La cifra tecnica e mentale di tanti effettivi non può sopportare la continuità di tanti impegni importanti così ravvicinati. Qualche capitombolo, fatti i dovuti scongiuri, è da mettere in preventivo. Cosa pensiamo di fare? Iniziamo a fischiare da adesso o preferiamo combattere al fianco dei nostri guerrieri facendo solo alla fine la conta dei caduti?

Uno, purtroppo, lo abbiamo patito ancor prima di entrare nel girone infernale. Pasquale D’Angelo, storico capo ultrà della curva B, di quelli che senti essere tuoi amici anche se in realtà non vi siete mai nemmeno presentati. E’ stato letale lo stress da gara e il freddo di Mosca per abbattere quel cuore pazzo di Napoli. Quel cuore non bramoso di successi, semplicemente piazzato lì per seguire la sua amata. Da trent’anni. Lui c’era a Stoccarda, c’era davanti al tribunale nel 2004 per apprendere le sorti del club, c’era ieri sera mentre tornavamo grandi n Europa. Lui c’è sempre stato. Un ciclo chiuso, o forse no. Nessuna vittoria, nessuna sconfitta. Solo il tifo, quello vero. E quella maledetta tachicardia. La dimostrazione di cosa significa amare la propria squadra del cuore. In ogni suo riflesso. Gli spettatori contestano, i tifosi supportano. Nella buona e nella cattiva sorte

Ivan De Vita

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