Fino ad ora, ero andata allo stadio per l’Europa League solo una volta. Assolutamente non per snobbismo. Per me sono sacre anche le amichevoli in Trentino con il Feralpi Salò. Non ci sono andata, diciamo così, per onorare una passione ereditata da mio padre e trovavo giusto viverla con lui che, invece, quest’anno ha rinunciato all’abbonamento. Ma con la semifinale non ce l’ho fatta. Complice il ritorno a Kiev e l’eventuale passaggio in finale che, comunque, sarebbe festeggiato con lui. In tutti i casi, bando alle ciance personali, il biglietto della semifinale era nella mia tasca fin da subito.
E avevo voglia di Europa come non mai.
Si prospettava un San Paolo pieno, e così è stato. Si prospettava una partita non facile, e così è stata. Si prospettava una vittoria per stare più tranquilli. E invece no. “Simm’ nati pe’ suffrì” è uno dei commenti che, credo, di aver sentito più spesso in curva, negli ultimi anni. Già! Soffriamo! E io ho cominciato fin dal pomeriggio, quando ho rischiato di perdermi il fischio d’inizio di una semifinale che aspettavo da tempo. Traffico. Tanto traffico. Troppo traffico. Temevo di diventare un essere mitologico: metà donna e metà auto. Lavorare fino alle 19 non ha aiutato a calmierare la mia ansia da pre-partita.
Arrivo allo stadio alle 20:20 circa. Non sudata. Di più. Non correndo. Sfiorando il record di Bolt. Ma una volta raggiunto il gruppo e l’amico venuto apposta da Verona per mantenermi il posto, ho guardato il campo e mi sono rilassata.
La curva era, finalmente, di nuovo bella. Piena, con il fermento della coreografia che siamo andati a riguardare una volta a casa perché c’erano opinioni diverse al riguardo, tra chi vedeva un cane con la museruola e chi ha avuto l’intuizione di Hannibal Lecter; con la distribuzione per tutto il settore delle bandierone, che sono state bellissime all’inizio ma non ci hanno fatto vedere i primi dieci minuti, tra chi raccontava agli altri la fascia destra e chi quella sinistra; con cori incessanti che ho sognato di notte i Righeira che cantavano nella mia stanza “L’estate sta finendo”; un “Napul’è” cantato a squarciagola, da brividi. Tutti volevano fare la propria parte. Anche il guardalinee. Ma questa è un’altra storia. Perché c’è un pre e un post. Un pre-partita coinvolgente ed entusiasmante e un post-partita bestemmiante e deludente.
A fine partita, i tifosi si sono divisi tra ottimisti e disfattisti, tra complottisti e fatalisti. Sta di fatto che, per tutte le volte che il guardalinee ha alzato la bandierina incriminata nel primo tempo e per tutte le volte che dalla curva gli abbiamo suggerito dove mettersela, sarebbe stato impossibile per lui ricacciarla in tempo per annullare il goal degli ucraini. Detta così, sembra quasi fosse colpa nostra. Qualcuno diceva che “una risata ci seppellirà”. In questo caso è esattamente il contrario. La risata ci fa sopravvivere all’ingiustizia subìta.
Ma i più lucidi sanno che, contro il Dnipro, avremmo dovuto fare qualcosa in più già prima del pareggio. In passato c’è stato qualcuno che si è portato il pallone a casa. Certo, era uno che i palloni amava collezionarli, e lungi da me essere nostalgica proprio adesso, ma sta di fatto che con una squadra meno tesa inizialmente, più concreta e con un centrocampo degno di questo nome, forse, avremmo chiuso il primo tempo almeno 3-0. E arrivederci a Varsavia. E invece “simm’ nati pe’ suffrì” lo abbiamo detto anche stavolta.
Un amico che settimana prossima andrà a Kiev, sperava in una vacanza, una passeggiata. Ho potuto solo dirgli : “Guaglio’, mi sa che invece devi entrare pure tu in campo al ritorno!”
Ci siamo salutati un po’ sconfortati, ma sempre ottimisti. La prossima volta che ci vedremo in curva al San Paolo, contro il Cesena, ci saluteremo da finalisti.
Tornando verso l’auto, un tipo davanti a me era arrabbiatissimo. Parlava di promesse di riscatto del Presidente non mantenute, delirava circa la lotta nord-sud non onorata, farneticava di un vendetta di Napoli mai compiuta. Ma soprattutto rivendicava un Careca, lui, sì, vero campione, a differenza dell’acclamato Higuain, buono per un pubblico di incompetenti, un Careca che avrebbe vinto da solo questa partita. “Se ci fosse stato Careca, avrebbe fatto minimo una tripletta!”.
Certo. E’ proprio il caso dirlo: “Se mio nonno avesse avuto tre palle…”
Deborah Divertito