Abbiamo fatto trenta, facciamo anche trentuno: crediamoci fino alla fine!

La sensazione più brutta al mondo: salire in alto, toccare il cielo con un dito ed in un batter di ciglia crollare in basso, quasi fino a toccare il fondo. Non aspettarselo e riuscire ancora a rialzarsi, più forti di prima e darsi una spinta. E poi ancora giù, fino a sprofondare ancora. Il bello ed il brutto del calcio, gli alti e bassi di una squadra che, come abbiamo sempre detto, quest’anno la vita se l’è complicata con le proprie mani, anzi, i propri piedi. Siamo arrivati ad oggi, il 25 maggio, a sei giorni dal termine della stagione, con una consapevolezza: sulla carta il Napoli non merita la Champions poiché ha sprecato tutte, ma proprio tutte, le occasioni a propria disposizione per conquistarla. Ce l’aveva in pugno ma gli è scivolata via decine di volte, quasi come se scottasse, come se nessuno la volesse. Eppure è sempre stata lì, ad un passo, a qualche punto, ad uno scontro diretto.

In fondo, “bastava” vincere sabato a Torino contro la Juve dei record ma anche quel matchball è stato ignominiosamente fallito. Ultima chance, il derby di Roma, al sapore di biscotto. Ma mai porre limiti alla provvidenza, alla voglia di emergere contro i rivali di sempre e perché no, di risparmiare un mese di preparazione anticipata rispetto alle altre, conquistando in un sol boccone tutti gli introiti della fase a gironi di Champions. Ma era una fiammella flebile, offuscata dal cinismo del calcio moderno e della possibilità di una vittoria della Lazio o ancor peggio di quel punto a testa che avrebbe accontentato entrambe.

Così si arriva alle 18, con uno sguardo fintamente distratto alla tv, senza darci troppo peso. Perché la scaramanzia a Napoli è importante quasi come la famiglia. Si guarda impotenti lo scorrere dei minuti, come se si stesse assistendo ad un film con una trama già nota e dal finale scontato. Eppure la tv resta accesa, così come la solita flebile fiammella. Perché essere tifosi ed appassionati di calcio vuol dire proprio questo: aspettarsi sempre l’inaspettato. Le emozioni vere, quelle intense, derivano proprio da questo semplice assunto, trasformatosi in realtà al 73′, per dieci minuti al cardiopalma: Roma-Lazio-biscotto-Roma. Poi, cinque minuti di recupero. Il fiato trattenuto e ora sì che si può davvero cantare (ma solo per qualche secondo) “Grazie Roma”.

Il senso di un’intera stagione sta qui, in quel brivido provato al triplice fischio finale dell’Olimpico. La speranza. Che non muta, che resta ed emerge spontanea, anche se impercettibile e non sfuma. Che muove ogni azione, ogni pensiero, ogni progetto. Perché anche chi aveva promesso di non mettere più piede al “San Paolo” perché ferito, deluso e disilluso ha pensato: “Ora scendo e vado a comprare il biglietto”. Perché forse, qualcuno sperava perfino che vincesse la Lazio per preservare il proprio cuore dalla possibilità di spezzarsi domenica prossimo al cospetto di un Napoli nuovamente senza mordente e non pervenuto davanti all’ultima, decisiva chance di conquistare la Champions, di risentire ancora quella splendida musichetta. Perché le finali non si giocano, si vincono ed è questo l’unico pensiero che Higuain e compagni devono ben memorizzare fino a domenica. Perché questa volta non possono deludere una città intera. Perché bisogna crederci, fino alla fine, spalla a spalla. Ormai abbiamo fatto trenta, facciamo anche trentuno..

Alessia Bartiromo
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