Un logico quesito, dopo l’amaro retrogusto che il biennio, colmo di rimpianti, di Rafa Benitez in azzurro ha lasciato in bocca ad un ambiente che dal tecnico madrileno auspicava un salto di qualità che, di fatto, non è avvenuto. Una semifinale europea dopo 26 anni, un Napoli in lotta su tre fronti fino al termine di una stagione estenuante, ma con un finale da thriller terminato nel peggior modo possibile: azzurri fuori dalla Champions League per la seconda stagione consecutiva ed un progetto da rifondare, con Rafa pronto coronare il sogno di una vita: guidare il Real Madrid. Domanda che scuote l’ambiente, dopo il blitz madrileno del presidente Aurelio De Laurentiis per strappare alla corte del Sevilla il basco Unai Emery, due volte trionfatore in Europa League: meglio riproporre la lezione spagnola o affidarsi ad un tecnico italiano, più avvezzo ad un campionato complesso e unico nel suo genere come quello del belpaese? Un dilemma che può aprirsi a svariate sfumature, al quale uno sguardo alle panchine della storia partenopea può aprire ad un ulteriore responso.
TRADIZIONE ITALIANA – Un uomo tutto d’un pezzo per risollevare la storia, Eraldo Monzeglio, terzino due volte campione del mondo con la Nazionale di Pozzo, simbolo dell’Italia del ventennio, vicino a Mussolini – allenatore di tennis dei figli – è il tecnico che tutt’ora detiene il record di stagioni consecutive sulla panchina azzurra: sette anni, 236 panchine, riportando il Napoli in A nel 1950. Per molti un sergente di ferro, si distinse per la gestione patriarcale dello spogliatoio e un rapporto spesso turbolento con il comandante Achille Lauro guidando un Napoli che al Vomero brillava con le giocate del Petisso e di Amadei. Un salto di trent’anni, Rino Marchesi e quel sogno scudetto, nuovamente, sfiorato nella maledetta annata 1980-81. Difesa solida con Castellini tra i pali e Bruscolotti a ringhiare, Krol colonna portante, l’implacabile terzino dell’Ajax di Michels e Crujff a giostrare da libero e a disegnare calcio, dettare i tempi di una sinfonia impeccabile. Una galoppata incredibile, fino al sorpasso sulla Roma. Il Perugia fanalino di coda da superare allo scadere dell’aprile dell’81 e quella maledetta autorete di Ferrario, il sogno dei novantamila del San Paolo che si interrompe, di nuovo, bruscamente, sul più bello, prima del più dolce epilogo.
Marchesi lasciò Napoli l’anno successivo per poi ritornare, nel 1983, per altre due stagioni, accogliendo in Italia il calcio, il trascinatore unico, simbolo inconstrastato della storia azzurra: Diego Armando Maradona. Pibe de oro legato a doppio filo all’esperienza di Ottavio Bianchi in azzurro, carattere sui generis quello del tecnico bresciano che da calciatore non si lasciò bene con l’ingegnere Ferlaino. Da tecnico, mai visceralmente amato dal gruppo ma al contempo ottimo gestore, guidò, dopo una prima annata di prove generali, Diego ed un fantastico collettivo di campioni a scrivere la storia: lo scudetto del 10 maggio 1987, Coppa italia e la magica serata di Stoccarda portando in riva al Golfo la Coppa Uefa nel maggio dell’89. Dopo di lui Albertino Bigon ed il secondo scudetto, a seguire la Supercoppa umiliando la Juventus a Fuorigrotta con un roboante 5-1 ancora tangibile, vivo nelle immagini di una lezione di calcio indimenticabile. I primi, grandi passi, preludio ai trionfi con la Juventus e alle notti mondiali di Germania per Marcello Lippi, il 1993, il Napoli di Ellenio Gallo che cominciava a soffrire le pene che avrebbero portato, dopo una decade, all’onta del fallimento. Sesto posto, un’impresa, la conquista di una Uefa che poi sarebbe mancata per oltre vent’anni. Il ciclo di Mazzarri la repentina, progressiva, crescita del Napoli della gestione De Laurentiis. Un secondo ed un terzo posto, una Coppa Italia, le giocate di Cavani, Lavezzi ed Hamsik e la ferocia di un gruppo inossidabile, le indimenticabili serate di Champions ancora vive, strabordanti negli occhi dei tifosi azzurri, tutto raccolto dalle ceneri del, fallito, progetto Donadoni.
FASCINO, PASSIONE E INNOVAZIONE STRANIERA – In principio fu William Garbutt, il mister per eccellenza che importò in Italia i dettami dei maestri inglesi. Dal 1929 al 1935, sei anni di Napoli costruendo una tradizione azzurra come nei sogni del presidente Ascarelli, alzando la testa al cospetto delle grandi del Nord. Non arrivò il tricolore come al Genoa ma un secondo, un terzo, un quarto ed un quinto posto trascinati da Sallustro e Vojak. Aplomb british. pipa d’ordinanza e un amore per Napoli mai nascosto, così come gli occhi lucidi raccontati al suo addio. Bruno Pesaola, compianto, indimenticabile, napoletano d’Argentina e quella magia: una Coppa Italia ed una promozione dalla B alla A nella stessa annata, il 1962, per poi riportare gli azzurri in A nel 1964. La storia del Napoli nel suo sguardo sornione, nelle sue espressioni serafiche e sempre ricolme di saggezza e passione per il calcio e per una maglia, azzurra, onorata in campo ed in panchina, senza mai abbandonare sigarette e cappotto di cammello. Lo scudetto sfiorato nel 1968, alle spalle del Milan del Paròn Nereo Rocco. Tanti campioni: Zoff, Juliano, Sivori, Canè, Altafini ed i rimpianti per la storia ad un passo. A chiudere il cerchio la salvezza conquistata, un’impresa, in coppia con Gennaro Rambone nel 1983. Amico fraterno del Petisso, un’altra colonna della storia del Napoli, sudamericano come lui, brasiliano trapiantato in Riva al Golfo, Luis Vinicio, O’lione. Portò alle pendici del Vesuvio, dalla panchina, una vera e propria rivoluzione. Il calcio totale, intensità e movimenti a memoria orange trapiantati in salsa partenopea. Il 1974, alle spalle un terzo posto – nel 1973 all’esordio sulla panchina del Napoli – e tanta voglia di stupire. Carmignani, Bruscolotti, Burgnich, Juliano, Clerici, Braglia, i ragazzi di Luis ed un calcio spumeggiante, innovazione trasfusa sul rettangolo verde, un faro nell’Italia del catenaccio e della difesa speculare. Quel titolo scucito dalla Juventus sotto i colpi di Josè Altafini, da allora core n’grato. Delusione sopita, ma solo in parte, l’anno successivo, il colpo Beppe Savoldi dal Bologna, mr.2 miliardi, mai perfettamente integrato nei meccanismi del tecnico brasiliano, a sostituire Clerici, il grimaldello di tante vittorie. La seconda Coppa Italia in scioltezza sul Verona, con uno scudetto che però, per oltre dieci anni, rimase miraggio, utopia. Breve ma significativa la parentesi partenopea di Vujadin Boskov, un settimo posto nel 95 raccogliendo in corsa l’inizio disastroso di Guerini, con la Uefa sfuggita solo nel recupero all’ultima giornata e una salvezza tranquilla l’anno successivo, ma un carico infinito di empatia ed affetto a legarlo alla piazza.
Benitez è storia recente, ancora viva nelle carni, due titoli in un anno ed una borsa di rimpianti lasciata a Castel Volturno. La palla passa a De Laurentiis, per una scelta dalla quale dipendono le sorti del nuovo corso azzurro.
Edoardo Brancaccio