Gargano, il secondo saluto del guerriero. Adesso senza rancori

L’estate del 2007, capitolo entusiasmante del Napoli 2.0, dell’esperienza partenopea del presidente Aurelio De Laurentiis. Il ritorno in A dopo sei anni, senza i patemi dei controlli Covisoc, della cronaca dai tribunali prima che dal San Paolo. Mannaie sul futuro di un club romantico, dalla storia bruciante ma fatta di cadute altrettanto inesorabili. Un Napoli che finalmente dopo decenni sembrava poggiare, soprattutto, su una realtà economica solida, ricca di prospettive poi realizzate. Una creatura nata dall’intuizione del patron partenopeo e dal lavoro e dalla sapienza di Pierpaolo Marino, che nonostante qualche incidente di percorso aveva pienamente raggiunto quell’obiettivo tracciato, ma con discrezione, nel settembre di tre anni prima, quando non c’erano neanche i palloni.

Hamsik, Lavezzi e Gargano. L’estate del 2007 e quei tre colpi in prospettiva dell’attuale deus ex machina dell’Atalanta. Due ventiduenni ed un ventenne su cui costruire la basi di un gruppo che avrebbe vissuto cicli importanti. Un’impronta ancora tangibile a distanza di quasi dieci anni. Il capitano azzurro ed il funambolo argentino hanno vissuto parabole opposte, destini diversi sulla scia di scelte di vita agli antipodi. Nel mezzo il volante uruguagio, approdato in azzurro dopo un’estenuante trattativa portata avanti dall’allora diggì partenopeo: tre milioni e mezzo per cingerlo d’azzurro. Una storia vissuta in due tranche quella del mediano di Paysandù alle pendici del Vesuvio. Pretoriano imprescindibile di Reja e del primo Mazzarri, colonna, leader in campo e nello spogliatoio. Quella convinzione dopo un’annata importante – 43 volte in campo con il Napoli che sfiorava i quarti di Champions ed alzava la quarta Coppa Italia –  di poter spiccare un nuovo salto di qualità. Quello definitivo dopo 196 presenze e 4 goal in maglia azzurra. All’età giusta, 28 anni. Dopo chilometri macinati e grinta da vendere, cavalcando la rinascita di una piazza, una partenza con il benestare di una dirigenza che non opponeva particolari resistenze.

Caduta e ritorno. L’approdo a San Siro nella stagione 2011-2012, subito quelle parole al miele per la piazza nerazzurra che in riva al Golfo in tanti hanno fatto fatica a dimenticare. Ambizione, frasi di circostanza e quella squadra della Playstation che ad alcuni era apparsa come un colpo di spugna su una storia trascinante, cinque anni spalla a spalla con un popolo orgoglioso per definizione come quello partenopeo. Le somme di fine anno e la dura realtà dei fatti, trentasei apparizioni con l’Inter senza mai convincere, contemporaneamente a Fuorigrotta veniva confezionato uno storico secondo posto. Niente riscatto ed anno di transizione a Parma senza lasciare il segno, un’ascesa ormai conclusa per lasciar spazio ad un ridimensionamento raggiunti i trentanni. Ritorno al mittente, Napoli come fermata, in attesa di una nuova destinazione, forse. Pochi avrebbero puntato sulla conferma a sorpresa nel secondo anno targato Rafa Benitez, quello della definitiva consacrazione del processo di internazionalizzazione, poi alla lunga abortito. Di certo ci credeva l’ex stellina del Danubio, che complici affari saltati – Gonalons e Kramer – e un mercato compromesso dall’eliminazione di Bilbao è riuscito ad instillare la scintilla del dubbio nell’allenatore madrileno.

Odi et amo. Una chance, come corollario di una campagna acquisti sottotono. Rispolverato proprio nelle due sfide contro i baschi, sull’onda lunga dell’impegno e dell’abnegazione mostrati fin dai primi scampoli di Dimaro. I limiti sempre gli stessi, quelli di un centrocampista – dinamico, di nerbo, ma con i soliti difetti tattici e in impostazione – che oltre certi livelli, ormai, non aveva più molto da dare, se non la solita grinta di sempre e caratteristiche che in rosa mancavano colpevolmente. Peculiarità che in un’annata fatta di cali di tensione ai limiti dell’incomprensibile hanno comunque rappresentato una nota di merito sulla stagione del numero 77 charrùa. Presente, mettendo il suo timbro, nella magica serata di Doha e nella cavalcata europea che comunque ha riportato gli azzurri in semifinale dopo ventisei anni. Trentasei presenze. Nonostante tutto, a dispetto di prestazioni talvolta insufficienti, garantendo comunque garra in un gruppo che troppo spesso scelto ha scelto il fioretto come vocazione. Carattere e lavoro a ricucire le ferite dei tempi interisti, tramutando, partita dopo partita, cori e striscioni ostili in ovazioni importanti.

L’avventura azzurra di Walter Gargano si chiude con l’approdo a titolo definitivo al Monterrey, il Messico e la Primera Division da scoprire. Dopo otto anni un nuovo ciak, lontano dal belpaese, nella carriera di un giocatore che dall’alto dei suoi 235 gettoni chiude da 23esimo nella storia del Napoli, sopra Altafini e Sentimenti II, giusto per rendere l’idea.

Edoardo Brancaccio

 

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