Era settembre 2013. A Napoli era appena giunta la colonia ispanica guidata da un condottiero senza macchia e senza paura, con in dote trofei da sventolare come vessilli. Speranze e illusioni si avvinghiavano con la più erotica delle emozioni. Quella notte gli azzurri sbancarono la San Siro rossonera, dopo 27 anni. “Un Napoli da scudetto”, si urlava da più parti. Perchè imporsi laddove aveva faticato anche Diego è un segno premonitore troppo ingombrante. La storia ha poi regalato meno soddisfazioni del previsto. E quella sera, in fondo, lo sapevamo un po’ tutti. Anche i più sognatori.
Lo smacco al Milan c’era stato, eccome. Ma con due fulmini in una gara mai veramente nostra, sempre terribilmente sfuggente. Chi ha creduto erroneamente che bastava il talento ex galacticos per ambire alla vetta, è ruzzolato giù molto prima di intravederla. I fuoriclasse sono decisivi nella singola gara per far pendere la bilancia dalla tua parte. Per incunearsi nella selva di un campionato pieno di insidie, invece, bisogna far valere l’unità di intenti, la compattezza, la voglia matta di oltrepassare i propri limiti. Ruota tutto intorno alla mentalità.
Ecco perchè oggi è diverso. Perchè il Napoli domenica non ha vinto da outsider, ha vinto da grande. Ha vinto perchè non ha mai smesso di pensarlo, mai mollato la presa. Mantenendo sul 3-0 la stessa marcia dei primi dieci minuti. Senza aspettare i colpi – quante volte letali – degli avversari, ma imponendo i propri. In una danza senza tempo.
Qui nasce la prima sforbiciata alla gestione Benitez. Quella squadra, lontano dalle coccole del San Paolo e dal furore della sua gente, si scioglieva in qualsiasi microonde, anche di seconda mano. Quest’anno, dopo le prime vittime illustri a Fuorigrotta, consapevoli della timidezza azzurra appena usciti dal casello, si attendeva la prova Mihajlovic come assoluto spartiacque. Ebbene Mosè, un po’ come tutto il Meazza, si dimenava con una perentoria cadenza napoletana. Troppo presto per scatenare voli pindarici. Basta in ogni caso la sensazione beneaugurante di aver intrapreso la via maestra.
Maestra perchè sembra illustrata alla lavagna. Lavoro e sacrificio conditi da passione e sorriso. Non è uno spot della Mulino Bianco, è solo la rivincita della normalità. Quella che, paradosso di un mondo piuttosto eccentrico, è sempre così abile a produrre scetticismi. Sarri lo sapeva ma non si è scomposto e ha tirato avanti fiducioso dei suoi principi. Questi ragazzi plurimilionari non si divertivano più ed era il primo nodo da sciogliere. Tre giorni fa novanta minuti a lottare con umiltà e palleggiare come bambini al parco. Non arrossivano mai, erano gli altri ad imbarazzarsi.
La personalità mostrata finalmente anche in trasferta ha riempito i cuoi di tutti noi, concedendo agli impavidi di lanciare la scaramanzia giù dal quinto piano. Calma e fiducia in tutti i momenti topici della gara, a ribadire lo stesso concetto espresso subito dopo il 2-1 di Lemina al San Paolo. Ora non si perde più la testa. Organizzazione è la parola d’ordine, concetto che si apprezza ancora di più se rapportato all’incompiutezza del Diavolo visto domenica. Sarebbe bello ricevere continue conferme su questo aspetto. A questo punto, però, entrano in scena i famosi leader. Non sempre si avrà la freschezza fisica e mentale per evitare situazioni di panico. Una guida, o più di una, farebbe più che comodo. Reina ce l’ha nel sangue, Allan si candida seriamente, Higuain e Hamsik sono sempre sotto esame. Poi c’è Lorenzo Insigne, che nel calcio come nella vita, ha saputo ben destreggiarsi tra alti e bassi. Se riuscisse soltanto a comunicare alla truppa ciò che ha dentro, la maglia n.10 può continuare a fare da cimelio in bacheca. Non importa.
Altro tassello del nuovo corso è la concentrazione ai massimi livelli. Tante le debolezze mentali sul piano individuale, soprattutto nel pacchetto arretrato. La sfida è far sì che nessuno stacchi mai la spina, a Milano come a Frosinone. Il processo di stabilizzazione da sbavature telluriche sta dando frutti insperati se si becca un solo gol nelle ultime sei gare. L’incognita resta il lungo periodo, eppure a volte basta solo saper avvitare la lampadina. Semplice ma così maliziosamente beffardo.
Una simbiosi tutta da vivere, insomma. Tra giocatori in campo, allenatore, tifosi e società. Non mancheranno frenate e ripicche, ma provando ad evitare musi lunghi e riti abbreviati. In un preoccupante parallelo con la giustizia, il calcio è sempre pronto a cambiare idea e mischiare le carte in tavola. Quanto meno in assenza di prove certe.
Ivan De Vita
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Articolo modificato 8 Ott 2015 - 09:28